Fuga di cervelli? Semmai li “importiamo”…

Germania batte Italia dieci a tre. E anche la Grecia, nel 2008 che ha segnato l’inizio della crisi europea, era stata capace di arrivare a 4. Ecco la percentuale di studenti universitari stranieri negli atenei di ogni Paese.

Le inchieste di Corriereuniv.it
Germania batte Italia dieci a tre. E anche la Grecia, nel 2008 che ha segnato l’inizio della crisi europea, era stata capace di arrivare a 4. Non sono statistiche sportive o economiche, ma accademiche: indicano la percentuale di studenti universitari stranieri negli atenei di ogni Paese.


I dati di Eurostat – l’ufficio statistico dell’Unione Europea – che arrivano fino al 2009, dicono infatti che in quell’anno erano 65.873 i cittadini di altri Paesi che avevano scelto le università italiane, compresi quelli che già avevano frequentato le scuole superiori nel nostro Paese. Poco più del 3 per cento (il 3,27, ad essere precisi) del totale degli iscritti, appunto. Numeri lontani da quelli britannici (oltre 498 mila studenti di altra nazionalità, più del 20% del totale), tedeschi (più di 256 mila, sopra il 10%), francesi (249 mila, oltre l’11%) e anche spagnoli (poche unità sotto gli 85 mila, 4,72%). E anche i 26 mila che nel 2008 – ultimo anno in cui da Atene sono arrivati i dati – avevano scelto le università greche, erano il 4,10% degli universitari locali.

Strano ma vero: l’inversione di tendenza
Sarebbe però parziale concentrarsi solo sul lato negativo di queste cifre, ignorando una tendenza evidenziata dagli stessi dati: il numero di studenti stranieri nei nostri atenei aumenta costantemente da anni; tra 2008 e 2009, ad esempio, è cresciuto di 5000 unità. Poche, certo, per parlare di una “fuga di cervelli al contrario”, e poche anche in rapporto agli altri Paesi (la Spagna, ad esempio, nello stesso periodo ha ‘messo a bilancio’ 20 mila presenze in più). Ma la parte positiva della statistica riguarda l’Oriente, e in particolare la Cina. L’Italia è infatti – secondo una ricerca della società di consulenza GHK e dell’università cinese Renmin – uno dei Paesi in cui la presenza di studenti della Repubblica Popolare è in crescita, mentre mete tradizionali come il Regno Unito (che da solo attira ancora il 66% degli studenti cinesi, contro il 4% del nostro Paese e il 9% della Germania) stanno sperimentando un rallentamento. In particolare, il numero degli iscritti a istituzioni artistiche o musicali (come le Accademie di Belle Arti di Milano, Firenze e Brescia) è raddoppiato tra 2009 e 2010, e costituisce il 75% del totale; ma anche l’ingegneria è una disciplina che spinge molti cittadini cinesi a studiare nel nostro Paese (i politecnici di Milano e Torino raccolgono rispettivamente il 9% e il 13% degli iscritti totali). In pochi, invece, arrivano stabilmente dagli Stati Uniti: solo 244 nel 2011, secondo l’anagrafe del Ministero dell’Università (i cui numeri complessivi sono leggermente più bassi rispetto a quelli di Eurostat). Eppure, il “mercato potenziale” oltreoceano sarebbe molto più ampio: il rapporto specializzato “Open Doors” (che tiene conto anche dei soggiorni temporanei) mete infatti l’Italia, con 27.940 presenze nel 2010, al secondo posto – dopo la Gran Bretagna – nelle scelte di chi dagli States decide di trascorrere all’estero almeno parte del periodo di studi.

La Cina è più che mai vicina
Arriva invece da Cina – appunto – Albania e Romania la maggioranza degli studenti stranieri negli atenei italiani. Insieme, rappresentano il 34,4% di quelli che non hanno la cittadinanza italiana, come mostra un’indagine di MoneyGram. Le stesse comunità straniere sono tra quelle più numerose – o in più forte espansione – in Italia: chi già è integrato sul territorio, dunque, riserva un’accoglienza migliore al nostro sistema accademico. Inevitabile, quindi, chiedersi quali siano le barriere che scoraggiano le domande dall’estero: da anni l’Ocse ha segnalato, ad esempio, la mancanza di corsi in lingua inglese, che però alcune università stanno attivando, mentre un altro fattore negativo sembrerebbe essere la burocrazia. Anche solo tentare di raccogliere informazioni in Rete sulla carriera accademica in Italia può infatti aprire un labirinto davanti allo studente straniero.

I siti del ministero
A nome del Ministero dell’Università, ad esempio, risultano attivi almeno due indirizzi web “dedicati”: www.studiareinitalia.it/studentistranieri (in italiano) e www.study-in-italy.it (in inglese). Quest’ultimo (fermo – a differenza dell’altro – alle istruzioni per l’iscrizione all’anno accademico 2011-12) al momento di indicare la lista dei corsi rimanda addirittura ad altri due siti diversi: quello del MIUR stesso e quello del Ministero degli Esteri.
Anche per rispondere all’esigenza di coordinamento è stato pensato il portale Universitaly che – come già accade in altri Stati europei – dovrebbe presentare tutta l’ offerta formativa accademica del nostro Paese. E proprio a un portale “almeno in italiano e inglese” faceva riferimento anche il decreto “semplificazioni” varato dal governo nello scorso febbraio, secondo cui tutte le iscrizioni, a partire dal 2013-14, dovranno avvenire solo online. Basterà? Di certo è un passo in una direzione – mettere la tecnologia al servizio delle profonde radici culturali dell’Università italiana – che potrebbe permettere, in futuro, di guardare più alla Germania, e meno alla Grecia.

Davide Maggiore

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  1. Questi andamenti dipendono da molti fattori di attrazione. Il più importante è la lingua del Paese ospitante (in questo senso la Gran Bretagna è favorita, ma anche la Spagna con i Paesi del Sud e Centro America, e la Francia con i Paesi del Maghreb). Un altro fattore importante è il costo della istruzione universitaria (in Germania per esempio non si pagano tasse universitarie). Ancora, le politiche di accoglienza (alloggi, sussidi) che sono molto attive per esempio in Francia. Nessuno di questi fattori premia l’Italia e i risultati si vedono.

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