Frati guida la rivolta dei rettori: “I più bravi in pensione anche a 75 anni”

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Luigi Frati, rettore dell’Università La Sapienza di Roma, è chiaro. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera interviene sulla questione del pensionamento d’ufficio dei docenti accademici. “Noi professori cosa siamo? Impiegati pubblici o accademici?”. 

 

«La domanda è una soltanto: che università vogliamo essere? Una competitiva, che sta al passo coi tempi, o vogliamo continuare così, dove lo scopo è soltanto quello di salvaguardare il proprio posto?». Luigi Frati, rettore dell’Università La Sapienza di Roma, è molto netto. Non entra subito nel merito del dibattito che si è scatenato sul pensionamento d’ufficio – passato da 70 a 65 e poi a 68 anni in poche ore – dei docenti accademici perché, sostiene, bisogna prima capire una cosa: «Noi professori cosa siamo? Impiegati pubblici o accademici nel senso internazionale della parola, cioè impegnati nella ricerca e nella formazione vera e propria?». Rettore in uscita Frati. Per la sua successione la corsa è a sei e il candidato più forte – in attesa del voto del 23 e 24 settembre – è Andrea Lenzi, endocrinologo e presidente del Consiglio universitario nazionale che ha attaccato frontalmente Frati: «Basta con la gestione basata su promesse ad personam e richieste di fedeltà», ha detto qualche settimana fa.

Quindi, rettore Frati, cosa siete voi docenti? «Devono dircelo i vertici. Se siamo personale della Pubblica amministrazione allora bisogna rispettare le sue regole: il pensionamento obbligato deve scattare dopo 40 o 42 anni di servizio». E se siete altro? «Se ci considerano docenti-ricercatori di un circuito internazionale allora bisogna comportarsi di seguito: si devono vedere le posizioni e gli incarichi, bisogna essere licenziati se non si è produttivi o, dall’altra parte, si può restare anche fino a 70-75 anni se si è altamente competitivi nella ricerca». Più di qualcuno sostiene che questa norma finirà per danneggiare l’offerta formativa. «Può darsi. Gli atenei storici potrebbero essere danneggiati, avendo una classe accademica più anziana. Ma questo è solo un lato del problema. Quello dell’emendamento governativo è soltanto un mezzo passo: allora è meglio farne uno intero e decidere una volta per tutte cosa siamo». Perché si arrivati a questo punto? «Perché da quando l’ex ministro dell’Istruzione Letizia Moratti ha pensato di bloccare lo scatto biennale di stipendio per i docenti universitari meno attivi, il mondo universitario oscilla tra chi guarda al sistema della ricerca e della formazione internazionale e chi vuole stare al calduccio del pubblico impiego dei tempi andati…».

Con che risultato? «È sotto gli occhi di tutti direi: da un lato s’è esteso a dismisura il privilegio dell’inamovibilità, dall’altro – e questo è anche peggio – è successo che ormai non c’è più differenza tra chi fa poco o nulla e chi produce nuove conoscenze e fa buona didattica». Qual è la direzione da prendere? «Tutti noi, professori e non solo, dobbiamo fare una scelta coraggiosa: l’unica strada è quella dell’allineamento alle regole internazionali. E a quel punto non importerà l’età del professore: chi produce, chi fa didattica apprezzata da colleghi e studenti, resta, anche a 75 anni. Chi non fa nulla se ne deve andare, anche se ha 50 anni, e lasciare il posto ai meritevoli. Poi bisognerebbe anche differenziare gli stipendi». E chi deve valutare se uno è valido o meno? «L’istituto c’è, l’Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione, che fa un lavoro di analisi oggettivo, magari migliorabile, ma è già qualcosa».

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