Università del Salento, il concorso scatena le polemiche

All’Università del Salento più punti a chi ha avuto cattedre nei nostri atenei. Gian Antonio Stella sul Corriere ci racconta uno spaccato dell’Università italiana e dei suoi meccanismi “meritocratici”  

Vale di più una cattedra ad Harvard o all’ateneo di Villautarchia? Dipende. All’Università del Salento, pare impossibile, il concorso per assumere 16 professori riconosce più punti a chi ha già insegnato nelle nostre aule piuttosto che ai docenti di Berkeley o Yale. Che gli atenei italiani possano essere sottovalutati dalle classifiche mondiali, come sospirano i rettori, è possibile. Anche l’ultimissimo «World University Ranking» del Times Higher education vede nelle prime 200 addirittura 74 università statunitensi, 29 britanniche, 12 tedesche, 11 olandesi, 8 canadesi, 8 australiane, 7 svizzere, 7 francesi, 5 giapponesi, 4 turche (quattro!) e una sola italiana. Cioè la Normale di Pisa che si piazza al 63º posto e, nella classifica pro capite, tenendo conto del numero degli studenti, starebbe molto più in alto. Seguono, nella seconda fascia, l’ateneo di Trieste e la Bicocca di Milano: nelle prime 250, a dispetto di tutte le vanità sulla «patria della cultura», non abbiamo altro.

Domanda: allora come mai, se le università italiane sono così scarse, i nostri ragazzi appena mettono il naso al di là della frontiera fanno spessissimo un figurone in tutto il mondo? Risposta: perché evidentemente, nonostante tutti i difetti, tutti i concorsi truccati, tutte le Parentopoli, nelle nostre aule si insegna e si impara meglio di quanto si pensi. Il problema della reputazione, però, resta. Ed è pesante: come possiamo rassegnarci ad avere tra le prime 400 università d’Europa solo 17 italiane?
Fatto sta che, non contentandosi di contestare la sacralità di queste classifiche, l’Università del Salento ha deciso di andare oltre. E di valutare di più i curriculum «caserecci» che non quelli di profilo internazionale. Lo dice il bando di selezione «per la copertura di 16 posti di professore universitario di ruolo di 2ª fascia» firmato dal rettore Vincenzo Zara.

Già il documento, va detto, è un capolavoro del delirio burocratese in cui affoga l’Italia: prima di arrivare al nocciolo, la delibera vera e propria, elenca infatti 42 «visto» e «vista» (da «vista la legge 23 agosto 1988 n.370 – esenzione dell’imposta di bollo…» a «vista la legge 9 maggio 1989 n.168-istituzione del ministero dell’Università…») più due «considerato» e un «ritenuto» per un totale di 189 righe di logorrea «codicillica». Il seguito, però, è perfino peggio.
Già alla prima delle cattedre messe in palio, infatti, quella di Archeologia, il massimo riconosciuto per l’«attività di docenza svolte in Italia» è di 20 punti, quello per le «attività di docenza e attività di ricerca all’estero» compresi gli «incarichi o fellowship ufficiali presso atenei e centri di ricerca esteri di alta qualificazione» e la «partecipazione a convegni internazionali in qualità di relatore», solo di 4. Cinque volte di meno.

Col risultato, ad esempio, che se un fuoriclasse celebre nel mondo come Andrew Stewart, specializzato in «Ancient Mediterranean Art and Archaeology», volesse prendersi lo sfizio di lasciare l’Università di Berkeley per venire a Lecce (ammesso che fosse accettato nonostante il passaporto straniero) avrebbe per la sua esperienza didattica 4 punti rispetto ai 20 riconosciuti a un ipotetico professor Tizio Caio che abbia insegnato in un’università telematica di Rocca Cannuccia. Assurdo. Tanto più di questi tempi, coi docenti delle «telematiche» che paiono (ma ci torneremo) moltiplicarsi miracolosamente.
E se può essere spacciato come una scelta sensata lo squilibrio (16 punti agli «italiani», cinque agli «stranieri») per la cattedra di letteratura italiana contemporanea, anche se ci sono fior di stranieri che la conoscono meglio di tanti italiani, appare folle la sproporzione, ad esempio, per la cattedra di Econometria (20 punti a 10), di «Meccanica applicata alle macchine» (30 punti a 10), di Botanica (20 punti a 5) o di «Misure elettriche ed elettroniche» dove lo squilibrio è ancora quintuplo: 10 punti ai «casalinghi», 2 agli eventuali acquisti dall’estero. Un terzo del punteggio che l’aspirante professore potrebbe guadagnare dimostrando di sapere l’inglese! E non è tutto. Un ricercatore ha generalmente un punteggio uguale a quello del capo-ricerca e in alcune discipline perfino più alto. Peggio: a «Progettazione industriale» chi ha avuto la «responsabilità scientifica di progetti di ricerca, nazionali e internazionali ammessi al finanziamento sulla base di bandi competitivi» ottiene un punto. Chi ha solo partecipato ne ottiene nove! Che razza di criterio è?

Per carità: evviva l’Italia ed evviva gli italiani! Ma se all’estero vanno a cercarli apposta gli stranieri (compresi moltissimi dei nostri, soprattutto giovani) per dotare il proprio ateneo di una classe accademica più variegata e internazionale e multiculturale possibile, perché mai noi dobbiamo fare il contrario? A Flavia Amabile che ne ha scritto nel blog de La Stampa , il direttore del dipartimento di fisica leccese ha spiegato che era importante «avere personale docente con esperienza didattica in Italia che possa da subito svolgere al meglio i corsi e, eventualmente, ricoprire cariche accademiche» (testuale!) e che c’era da «valorizzare i ricercatori (italiani e non) che in questi anni di blocco dei concorsi hanno consentito il normale svolgimento delle attività didattiche». Per carità, sarà anche vero… Ma all’estero come la vedranno, questa faccenda? Ci farà guadagnare o perdere altri punti nelle classifiche?

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