Lo scienziato napoletano che scopre i falsi nella ricerca: “E’ la WikiLeaks della scienza”

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Enrico Bucci la chiama la «wikileaks della scienza». È un sito scarno, incomprensibile ai non specialisti: battezzato Pub-peer (pubpeer.com ), contiene segnalazioni anonime su articoli scientifici ritenuti «sospetti». Bucci, biologo napoletano ed ex ricercatore del Cnr, è partito da lì per indagare la correttezza della scienza italiana. E insieme cercare il possibile antidoto a un problema che preoccupa la comunità dei ricercatori (non solo in Italia): il diffondersi crescente di frodi scientifiche. «Ho analizzato circa 3.500 lavori biomedici segnalati su Pubpeer – denuncia -, quelli firmati da italiani sono 565: l’Italia è il secondo Paese dopo gli Usa in termini assoluti, ma il primo in percentuale sulla produzione scientifica. E l’università con la maggior percentuale di segnalazioni è la Federico II di Napoli» (dove Bucci si è formato).

Il fenomeno però è globale: ad agosto uno scandalo su dati falsi ha indotto al suicidio il luminare giapponese dell’embriologia Yoshiki Sasai, 52 anni, che non ha retto la «profonda vergogna» di aver co-firmato senza adeguati controlli il lavoro di una ricercatrice che usava risultati inattendibili. «Le carriere scientifiche e l’assegnazione dei fondi di ricerca si decidono in base al numero di articoli pubblicati su riviste specializzate – spiega Bucci -. E c’è chi pur di pubblicare falsifica i risultati degli esperimenti. Ma è molto pericoloso: su quei dati si decide se investire, per esempio, per sviluppare farmaci». «Le frodi riguardano tra il 3 e il 5% delle ricerche, salgono al 20% circa se si considerano altre forme di violazione di standard scientifici, come la lettura troppo favorevole dei dati – conferma Gerry Melino, professore di biologia all’Università di Roma Tor Vergata e fondatore della rivista Cell Death and Differentiation -. A me è successo di scoprire articoli manipolati come editore e come direttore di dipartimento». L’ultimo caso è dell’anno scorso.

«Ricercatori del mio dipartimento avevano pubblicato un lavoro su Bmc Physiology, una rivista inglese. Gli editori o i lettori si sono accorti che qualcosa non tornava e ci hanno chiesto verifiche», racconta Melino (l’articolo è segnalato come sospetto anche su Pub-peer). «Abbiamo chiesto gli originali degli esperimenti ed è risultato che i problemi riguardavano i dati di una sola ricercatrice, Gabriella Marfe: le figure riscontrate in laboratorio non corrispondevano a quelle pubblicate. Le abbiamo chiesto conto e non ha saputo giustificare le divergenze: è stato molto triste. Era una ricercatrice esterna venuta da noi per una collaborazione di un anno e le abbiamo revocato l’ospitalità». Da allora Melino ha iniziato a interrogarsi sulle misure da adottare per evitare manipolazioni. Anche perché a differenza di altri Paesi europei come la Germania (che lo ha introdotto circa 15 anni fa quando due scienziati sono stati scoperti ad aver falsificato dati in 94 articoli) l’Italia non ha un codice deontologico per le università, né leggi specifiche.

In alcuni casi interviene la magistratura, anche in Italia. In Umbria nel 2012 c’è stato il primo processo penale per una frode scientifica: il professore di gastroenterologia dell’Università di Perugia Stefano Fiorucci è stato rinviato a giudizio per peculato e truffa con l’accusa di aver manipolato le immagini di una quindicina di articoli pubblicati tra 2001 e 2005 e di aver abusato dei fondi pubblici di ricerca (Fiorucci si è sempre detto innocente). Al momento c’è un’indagine su otto pubblicazioni prodotte fra il 2001 e il 2012 dal gruppo di lavoro del professor Alfredo Fusco, professore ordinario alla Federico II di Napoli (ne ha scritto Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera del 16 ottobre 2013). Fusco e il suo team, che studia i meccanismi cellulari all’origine dei tumori, sono accusati di aver usato immagini di proteine o di geni «scattate» in tutt’altri test e opportunamente duplicate, ribaltate o manipolate per legittimare i loro risultati. La Procura ipotizza che, falsificando i dati, si siano appropriati indebitamente di fondi per la ricerca. La vicenda ha attirato l’attenzione di Nature , che a dicembre in un editoriale intitolato «Chiamate la polizia» ha proposto di far tesoro dell’«esempio italiano» e riflettere sulla possibilità di coinvolgere la polizia nelle indagini sui risultati scientifici. Ma i poliziotti, che non sono medici o biologi, hanno la formazione adatta per accertare le manipolazioni su lastre di laboratorio e vetrini cellulari? E cosa dovrebbero fare: controlli a tappeto su tutti gli articoli pubblicati dalle università italiane?

Una possibile soluzione arriva proprio da Bucci, che è anche l’autore dell’esposto da cui sono partite le indagini della magistratura su Fusco. Con la sua società Biodigitalvalley Bucci vende infatti analisi dei dati biomedici e per assicurarsi di usare sempre informazioni corrette ha sviluppato un apposito software. Il programma, chiamato Imagecheck, analizza le immagini contenute negli articoli scientifici e segnala quelle che potrebbero essere manipolate (in biologia le immagini sono di fatto i «dati» con cui si lavora). «Ho verificato che il 70% delle segnalazioni su Pubpeer corrispondono agli errori rilevati con la mia procedura. Un 30% è “borderline”», spiega. Il software è stato chiesto da alcune importanti riviste scientifiche internazionali, che lo stanno usando per vagliare i lavori da pubblicare. Ma Bucci vorrebbe che fosse impiegato in modo sistematico. «Non può essere solo la mia piccola azienda a fare i controlli – dice -. Sarei felice di affidare la mia procedura a un’istituzione internazionale che si faccia carico delle spese per “ripulire” la letteratura scientifica».

A chiedere a gran voce un «codice deontologico nazionale per la ricerca» c’è Elena Cattaneo, senatrice a vita e direttore del Centro di ricerca sulle cellule staminali dell’Università di Milano. «Parte della comunità scientifica si sta muovendo per risolvere il problema – assicura -. E sono orgogliosa che questa discussione si sia aperta in Italia». Secondo lei bisogna agire su tre livelli: «Maggiore autoregolamentazione e controlli più stretti a livello di singoli laboratori, dipartimenti e università, che possono prendere le prime sanzioni sui ricercatori scorretti – dice -. Chi guida i laboratori ha sempre la responsabilità di mantenere l’integrità etica della ricerca. Se poi i falsi condizionano l’assegnazione di fondi o la carriera è giusto invece che intervenga la polizia. Infine, serve una verifica centrale sui laboratori pubblici». Alcune istituzioni, come l’Ue, la prevedono già e mandano spesso i loro ispettori a controllare cosa fanno i laboratori a cui hanno assegnato fondi. «È urgente prendere provvedimenti – avverte Cattaneo -: la scienza è per definizione ricerca della verità. Se qualcuno manipola i dati mina le sue fondamenta e deve essere messo fuori dalla comunità scientifica. Succede già molto spesso: facciamo in modo che succeda sempre». (Corriere.it)

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