Intervista a Davide Faraone: "Dopo #labuonascuola tocca a #labuonauniversità"

Dopo «La Buona Scuola» al Miur stanno lavorando a «La Buona Università», un piano per «rottamare le rigidità», annuncia il sottosegretario Davide Faraone in un’intervista con Flavia Amabile.
 
Il 14% degli italiani sono laureati fra quelli in età compresa tra i 24 e i 64 anni L’Italia è al terzultimo posto. Lo stesso vale per i laureati tra i 24 e i 34 anni mentre nel resto d’Europa i laureati sono in aumento. Come si può invertire questa tendenza?  
«Si deve cambiare mentalità. Il cuore dell’università sono gli studenti: maggior numero di immatricolati e soprattutto maggior numero di studenti che portano a termine gli studi. Ci vuole più orientamento in entrata e più tutorato in itinere. Certo, anche agli studenti chiediamo uno sforzo di approfondimento delle scelte e delle motivazioni, ma dobbiamo aiutarli a farlo. E poi il nostro sistema deve sviluppare anche forme alternative all’università, per esempio potenziando molto il sistema ITS, soprattutto nei nuovi settori. Insomma stiamo ragionando per un’offerta formativa superiore dinamica e plurale, meno rigida. Penso che dovremmo ragionare anche sulla durata complessiva del percorso. Oggi 3+2 significa quando va bene passare sei-sette anni all’università, con molti tempi morti. Riflettiamo seriamente sulla laurea triennale, potenziamola se dobbiamo, ma puntiamo a renderla un titolo subito spendibile».
 
Secondo le università il problema principale è la mancanza di risorse. Secondo voi del Miur?  
«Le risorse sono sempre un problema ma non possono essere l’unico problema. Soltanto meno della metà dei nostri studenti sono in corso e attivi, oltre la metà degli immatricolati non arriva mai alla laurea, i laureati in corso sono meno del 20%: è solo questione di risorse o anche di organizzazione e di priorità malposte? Di obiettivi e di strategie sbagliate?»
 
Ci sono molte cose da fare e errori da non ripetere, ha detto lei all’inaugurazione dell’anno accademico alla Sapienza. Quali errori non vanno ripetuti?  
«L’Università della “Prima Repubblica” ha ragionato intorno a un sistema universitario rigidissimo, diciamo pure che tutto ruotava sul “barone”, o comunque sulle esigenze dell’accademia. Ancora oggi la madre di tutte le questioni sembra la carriera del docente, il numero delle cattedre disponibili. Posto che il problema esiste, la vera questione secondo me è come formare dentro le Università e con altri percorsi di formazione terziaria, la classe dirigente e la testa produttiva del Paese. Parliamo pure di reclutamento e carriera, ci mancherebbe, ma facciamolo in un’ottica diversa: prima decidiamo di quale università e di quale corpo docente abbiamo bisogno per far progredire l’Italia, poi troviamo risorse e strumenti. E soprattutto evitiamo di creare illusioni. Produciamo circa 10.000 dottori di ricerca l’anno, la maggioranza dei quali aspira alla carriera universitaria, che però nel migliore dei casi può assorbirne un quinto, magari in futuro un quarto, non di più. Questo dev’essere chiaro a tutti. Piuttosto vediamo rapidamente come valorizzare il dottorato nell’amministrazione pubblica, nelle imprese, nelle professioni. Penso soprattutto alla scuola, dove le competenze di chi ha raggiunto il massimo livello di formazione accademica potrebbero essere un volano di qualità».
 
Lei sostiene che il 2015 sarà l’anno della buona università: in che cosa consiste?  
«Vogliamo mettere in campo i problemi e le priorità vere del mondo universitario e discuterle a 360 gradi in modo organico come abbiamo fatto con la scuola: aprirla al Paese. Come? Affrontando il problema dei problemi: il lavoro, non solo la ricerca. Vogliamo parlare di orientamento, della possibilità del tutorato, della qualità della didattica e del diritto allo studio. Vogliamo proporre una strategia universitaria per la crescita del Paese e degli studenti, non solo dell’Ateneo: più studenti, più residenze, maggiore mobilità di docenti e studenti, meno regole e più valutazione. E la mobilità, sia chiaro, non può essere solo quella dal Sud al Nord, che drena le energie vitali di una parte importante dell’Italia. Abbiamo un sistema universitario che sulla carta è nazionale, ma ormai è sempre più spaccato in due. Questo non è accettabile, anche perché al Sud ci sono alcune ottime università e altre che possono diventarlo. Poi dobbiamo far emergere le vocazioni imprenditoriali dei gruppi di ricerca, mettere le basi per l’apprendistato di alta formazione e ricerca, incoraggiare un legame più stretto tra Università e sistemi produttivi territoriali secondo criteri di apertura e condivisione».
 
Si tratta di un progetto allo studio?  
«Certamente, stiamo incontrando rappresentanti degli enti di ricerca, del corpo docente, del mondo studentesco e di quello produttivo. Come la scuola non è solo degli insegnanti l’Università, con tutto il rispetto, non è solo dei rettori e dei professori. Internazionalizzare l’Università italiana non vuol dire solo avere eccellenze nella ricerca ma adeguare anche gli standard della didattica, dei servizi e delle prospettive occupazionali. E anche le modalità di gestione. Le nostre università lavorano con le mani legate e una palla al piede, sono prigioniere di una valanga di regole pensate per altri settori della P.A. Come facciamo a competere quando negli altri Paesi europei i tempi di decisione e i margini di manovra sono completamente diversi? Ma lo sa che per attivare un contratto da poche migliaia di euro un ateneo deve chiedere il permesso preventivo alla Corte dei Conti? Io ho un’idea diversa di università: alla politica spetta stabilire gli obiettivi, stanziare le risorse e valutare i risultati. Poi basta, per favore, abbandoniamo la cultura della triplice copia e del bollo di ceralacca».
 
I tempi di realizzazione della Buona Università?  
«Intanto è importante iniziare a discutere di queste cose, perché non si è mai fatto in questi termini. Cambiare verso. Attivare un confronto con tutti su idee nuove. Ascoltare, ascoltare, ascoltare. Poi subito alcuni passi concreti: quest’anno distribuiremo il Fondo di finanziamento delle università a marzo, non a dicembre, e la Finanziaria ha stabilito i fondi anche per i due anni successivi. Questo significa che le università possono programmare con un po’ di respiro. Penso anche che dobbiamo definire una volta per tutte come sarà attribuita la quota premiale “libera” del FFO, circa il 6%, che non può cambiare destinazione ogni anno. Sono convinto che deve andare a premiare i risultati della didattica, cioè la percentuale dei laureati e il loro inserimento nel mondo del lavoro. Dobbiamo ripensare a fondo la filiera: se all’università si iscrivono studenti ben preparati e ben motivati, e li si segue come si deve, l’abbandono degli studi deve diventare un’eccezione. In questo senso dobbiamo ripensare a fondo il sistema del diritto allo studio. Così com’è funziona poco e male».
 
Renzi è d’accordo?  
«Beh, se non lui chi potrebbe essere d’accordo con il rottamare le rigidità che ingessano il sistema?».
 
 
 
 

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