Il discorso di Chiara Daraio agli studenti: "Pensatevi come maghi e immaginate la tecnologia del futuro"

Prof. Chiara Daraio

“I maghi di oggi sono gli scienziati, i medici, gli ingegneri”: esordisce così nel discorso agli studenti del suo Ateneo di formazione, l’Università Politecnica delle Marche, Chiara Daraio, professoressa di fama mondiale e ricercatrice inserita nella prestigiosa “Brilliant 10” della rivista Popular Science che ogni anno seleziona i dieci migliori scienziati under 40 attivi negli Stati Uniti. La scienza come capacità di realizzare quello che nel presente può essere solo immaginato; la crescita dello scienziato attraverso le esperienze, le prospettive e anche il divertimento: ecco di seguito lo straordinario discorso di Chiara Daraio:
 
Buongiorno a tutti,
Presidente della Regione, Membri del Parlamento e del Consiglio Regionale, Autorità civili e militari, colleghi e studenti, pubblico qui presente. Un grazie sincero al Magnifico Rettore di questa giovane e bellissima Università, Prof. Longhi, per questo invito a tornare dopo tanti anni nella mia Alma Mater, e per voi tutti, per essere qui ad ascoltarci. E’ emozionante per me essere qui oggi, nella stessa aula dove 15 anni fa ho discusso la mia tesi di laurea. E’ bello avere l’opportunità di esprimere, con questa testimonianza, la mia gratitudine e senso di appartenenza a questo Ateneo.
Lo scrittore Arthur Clark ha scritto che “Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”. In effetti, nella tradizione cristiana i maghi, o Magi, erano studiosi astronomi, unicamente capaci di riconoscere e predire eventi miracolosi. Magi — o maghi — del giorno d’oggi sono i medici, gli ingegneri e gli scienziati. Artefici delle scoperte che portano l’innovazione e ricchezza in un paese. Quello che la scienza e la tecnologia hanno prodotto, l’elettronica che abbiamo in tasca e usiamo ogni giorno, fino a poco tempo fa sarebbe stata considerata magica. Scoperte e innovazioni fondamentali producono benessere per gli individui e la collettività. La scienza ci meraviglia con grandi scoperte. Ha permesso l’invenzione di esoscheletri, per far camminare persone paraplegiche, impianti di coclea, che portano la musica ai non udenti, l’invenzione di internet, che ci permette di comunicare istantaneamente con tutto il mondo e vedere persone lontane, la stazione spaziale orbitante, su cui persone come noi orbitano da più di 15 anni a ~30,000 Km/h per mesi, passandoci sopra la testa ~15.5 volte al giorno (se ci pensate, gli astronauti li su vedono sorgere il sole 15 volte al giorno!). E la lista potrebbe continuare.
Sono stata una studentessa qui ad Ancona tra il 1996 e il 2001. Gli anni della connessione al web. Mi ricordo ancora la trepidazione del mio primo accesso online, nell’aula studenti dell’Università che aveva 5-6 computer (in tutto!) connessi alla rete. Ricordo le ore di attesa per accedere ad uno degli schermi. Lo scrivere sul motore di ricerca “Altavista” per la prima volta “CNN.com” e vedere aprirsi con lentezza ma certezza, immagine dopo immagine finestre su un mondo nuovo. Adesso i miei figli di 3 e 5 anni navigano su internet come se fosse una realtà ovvia, onnipresente, scontata. Giorni fa all’asilo, la maestra ha chiesto a uno di loro se sapesse cosa mangiano le lumache. Lui ha candidamente risposto “Mmm, non lo so, chiediamolo a Google” – Ma come non lo sa? Ma come, Google? – E fortuna che non le abbia detto “Aspetta, chiedo a Siri”.
David Foster Wallace raccontò tempo fa un aneddoto:  “Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: – Salve ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: – Che cavolo è l’acqua?” 
Io penso alla tecnologia come l’acqua. Ci circonda, e può scorrere velocissima. Ma spesso è facile darla per scontata. Più in generale, la storia dei pesciolini vuole mettere in luce che “le realtà più ovvie, onnipresenti e importanti sono spesso le più difficili da capire e da discutere”.
Il messaggio che vorrei lasciare oggi è un invito, o forse una sfida, per gli studenti e studentesse che cominciano quest’anno il loro cammino accademico, e per quelli che sono già in cammino da tempo, a non prendere la tecnologia come scontata, ma di essere i fautori dell’innovazione. Di pensarsi un po’ come dei maghi del futuro ed osare a immaginare quella che sarà la tecnologia del futuro. E costruirla.
Nel mio ultimo anno di studi in Ancona, ho avuto l’opportunità di fare un’ esperienza all’estero, grazie ad una collaborazione tra il mio relatore di tesi, il Prof. Enrico Evangelista, e un collega all’Università della California, a San Diego. Una delle cose che mi ha più impressionato dell’arrivo in California è stato lo spirito di iniziativa, l’energia per intraprendere sfide impossibili, e la capacità di ridiscutere e rivalutare, tra pari, idee difficili e controverse. Gli studenti, venivano con me a lezione sentendosi privilegiati per avere l’opportunità di essere ammessi a quegli studi, e si sentivano liberi di fare domande senza paura di essere giudicati. Forse aiutava che entrassero a lezione arrivando direttamente dalla spiaggia, appoggiando la tavola da surf sul muro dell’aula, che era spesso equipaggiata con appositi supporti. I professori erano disponibili ad accettare conversazioni aperte, a offrire consigli, e offrire il loro tempo e supporto. Era uno scambio se non alla pari, quanto mai informale. Tutti inseguivano un sogno coraggioso: curare il cancro, sviluppare nuovi prodotti per telecomunicazioni, inventare occhi bionici, o scoprire la tomba di Genghis Khan. Molti, quasi tutti i miei colleghi, naturalmente, hanno poi in realtà seguito una carriera più convenzionale, ma la voglia di sognare e credere nelle proprie capacità era contagiosa e pervasiva. Fu per me una folgorazione, un amore a prima vista.
La sfida per voi oggi è quella di uscire dai canoni predefiniti e dal “comfort zone” familiare. Createvi e cogliete al volo le opportunità, non cadranno dal cielo. Lancio una sfida ad avere il coraggio di fare domande, di rischiare, di provare, fallire, provare ancora e fallire meglio. Di partire e poi, forse, tornare. Il mondo oggi è piccolo – chiedetelo agli astronauti della stazione spaziale orbitante. Alla fine del viaggio, quotando Benjamin Franklin, “l’energia e la persistenza conquisteranno ogni cosa”.
Il mio percorso accademico, quello che mi ha portato qui oggi, è stato tortuoso e talvolta imprevedibile. Mi sono laureata qui in Ingegneria meccanica: facoltà scelta non senza titubanze. Forse il vero sogno sarebbe stato studiare Fisica, ma nella scelta al tempo prevalse il pragmatismo. La realtà non è mai bianca o nera e, come immagino per molti di voi, anche per me decidere non è stato semplicissimo. Così come non ho sempre sognato di intraprendere la carriera accademica. Tutt’altro. Oltre alla fatica di capire il vero “nucleo” della mia vocazione, anche per me incombeva il dubbio sulle prospettive lavorative. Quello che posso dire oggi, riguardando da qui gli anni di indecisione, è che ho sempre guardato ai momenti di scelta come opportunità. E ho provato ad inseguire anche quelle che sembravano impossibili, o oggettivamente irraggiungibili.
L’opportunità di fare una tesi di laurea in America mi ha aperto le porte ad un master ed un dottorato in scienza dei materiali, che ho ricevuto dall’università della California. Ho intrapreso diversi progetti che mi hanno permesso di viaggiare tra l’Oregon e San Francisco, trascorrendo più di un anno a Berkeley. Da ogni esperienza ho imparato nuovi approcci, nuove tecniche, nuove idee. Ma in ogni posto ho anche cercato di divertirmi. E questo penso sia un punto importante. L’opportunità di scegliere di studiare quel che ci appassiona, permette di vivere il proprio lavoro anche come un hobby. Io per lo meno ci ho sempre creduto molto. Questo non significa che ho fatto solo cose divertenti, anzi. Ho seguito corsi noiosissimi. Ho passato ore in laboratorio a lucidare provini metallici o giorni arrotolata su uno schermo verde, a perfezionare l’allineamento di fasci di ioni nelle stanze buie dei microscopi elettronici. Ho passato pomeriggi davanti ad equazioni impenetrabili, provando e riprovando, frustrata, ma con perseveranza. Penso di aver perfezionato questa pazienza soprattutto qui in Italia, aspettando per ore professori in ritardo a ricevimenti ed esami, o adempiendo misteriosi requisiti burocratici.
Al di la della pazienza, ho fatto tesoro della mia educazione in Italia. Qui ho ricevuto una forte preparazione di base. Dopo la laurea, sono entrata in competizione con i migliori studenti del mondo che, come me, si volgevano verso l’America per nuove sfide. La mia preparazione teorica era superiore a molti, e mi è servita come un trampolino durante il dottorato. Ma oltre a saper integrare equazioni e a navigare teorie complesse, in Italia, avevo anche imparato altre cose. Come la valorizzazione della creatività, che ancora oggi mi aiuta a pensare fuori dagli schemi, e lo sviluppo di capacità relazionali, che mi permettono di interagire in maniera poliedrica con persone diverse. Queste “soft skills”, nella mia carriera, hanno fatto spesso la differenza.
Come immaginate, non sono una sostenitrice del radicamento. Non credo all’idea che il compito di ogni università sia quello di trovare uno spazio lavorativo ai suoi studenti, crescendoli dalla culla alla pensione. Ma credo che uno dei compiti più importanti delle università sia quello formare talenti e di offrire opportunità, mostrando ai giovani diversi modi di arricchire il loro bagaglio di esperienze, tramite internships e scambi internazionali. In questo mondo piccolo e iperconnesso, la mobilità è parte essenziale e inestricabile dell’innovazione. Per favorire interscambi di culture e conoscenze, i migliori atenei Americani ed internazionali incoraggiano studenti ad arricchire il loro curriculum con lauree avanzate presso altre universita’. Similarmente, per ruoli di professore preferiscono evitare l’assunzione diretta di candidati interni, dando priorita’ all’assunzione di esterni con molteplici esperienze. Il successo dei propri studenti in altri atenei, o in industria, e’ motivo di orgoglio, e una misura interna di successo del sistema educativo.
Bello sentire dal Prof. Longhi, che l’università di Ancona sta’ investendo in nuove iniziative per l’internazionalizzazione e informazione per gli studenti! La mia esperienza mi ha insegnato, infatti, che una chiave per l’innovazione è la diversità. Diversità che si ottiene, per esempio, in un incontro tra persone con esperienze diverse, o nell’approcciare un problema scientifico arrivandoci dall’esterno, portando punti di vista nuovi. Per esempio, usando modelli numerici o apparati sperimentali prettamente meccanici nella biologia. E’ uscendo dal confort di quello che sappiamo bene che sta la maggiore fonte di crescita e ricchezza culturale. E’ cosi’ che si creano opportunità per il futuro.
Oggi, sono professore universitario al California Institute of Technology (Caltech), una piccola ma prodigiosa università Californiana – l’avrete sentita nominare recentemente per la misurazione delle onde gravitazionali, e al politecnico di Zurigo in Svizzera, un attrezzatissimo polo tecnologico Europeo. Insegno ingegneria meccanica e studio nuovi materiali che possono essere usati per migliorare immagini ad ultrasuoni o come sensori estremamente accurati per la micro-elettronica. La voglia di innovare mi porta ad un continuo desiderio di lanciarmi in diversi progetti che intersecano la medicina e l’aerospazio, collaborando con diverse realtà industriali, da Walt Disney a General Electric, e accademiche. Coordino un gruppo di ricerca internazionale, composto da circa 25 persone di 13 nazionalità diverse. Quello che ci unisce è la passione per la ricerca, la voglia di creare, con le nostre piccole scoperte, un futuro migliore. Ed è proprio questa passione, come la meraviglia dei Maghi, che ci spinge a cercare nella fisica e nella meccanica, nuove leggi e proprietà per inventare nuovi materiali.
Per arrivare qui, oggi, è stato essenziale avere il supporto di un’università e una società, quella Americana, che hanno saputo scommettere su una giovane donna, con un curriculum acerbo, ma tanto entusiasmo. Un’università che mi ha affidato l’insegnamento e la formazione di giovani scienziati ed ingegneri, solo appena più giovani di me.
E’ questo credere nella creatività dei giovani che ha fatto la differenza e che consente agli Stati Uniti di rimanere leader indiscusso nello sviluppo tecnologico e dell’innovazione. I giovani che portano nuove idee, freschezza ed entusiasmo. Giovani che hanno un’enorme energia e tempo da dedicare a ciò che li appassiona. Giovani che nell’inesperienza hanno il coraggio di esplorare strade impensate. Credere nell’importanza della ricerca per lo sviluppo economico del Paese, significa che le istituzioni statali e gli imprenditori devono investire concretamente maggiori risorse verso l’eccellenza. Ridurre gli sprechi e focalizzare gli sforzi è un primo passo in questa direzione. Diamo quindi ai giovani laboratori, risorse economiche ed indipendenza! Con il potenziale creativo che ci distingue, ed ha sempre distinto l’Italia, puntare sui giovani vuol dire tornare ai vertici dell’innovazione.
Mi rivolgo quindi ai giovani qui presenti, che come me vogliono contribuire a costruire un futuro migliore. Dobbiamo continuare a chiederci “cosa è l’acqua?”. Con la stessa ingenuità e freschezza di un bambino, ma con la consapevolezza adulta di sfidare un assioma. Non scoraggiamoci di fronte alle attuali difficoltà del sistema universitario, ma continuiamo a credere nelle nostre passioni e interessi. La ricerca è un ambiente entusiasmante e creativo, flessibile e collaborativo, che offre tante opportunità per poter contribuire al cambiamento e la crescita di un paese.
Auguro a tutti gli studenti e colleghi qui presenti di continuare a credere in questa meraviglia, tanto quanto ci credo io.

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