L'angoscia della Tecnica nelle visioni di Dino Buzzati

La scienza ha sempre portato con sé un aspetto tecnico inscindibile dalla ricerca teorica. Basti pensare che il metodo scientifico si basa sulla verificabilità e ripetibilità di un esperimento che va a confermare la rispettiva teoria. È quindi sempre presente il confronto con il dato sperimentale tramite l’apparecchiatura tecnica per la misurazione dei dati. Più radicalmente si potrebbe dire che la ricerca scientifica sia più o meno larvatamente uno strumento per il progresso tecnico dell’umanità. Non ci si addentrerà nello spinoso problema filosofico della finalità della scienza fisica moderna e della questione se essa possa sussistere a sé come ricerca disinteressata. Proporrò invece un approccio letterario tramite una novella paradigmatica dell’angoscia che l’uomo moderno prova quando volge la mente alla moderna fisica e alle invenzioni tecniche distruttive che ne sono derivate, in particolar modo riguardanti l’energia nucleare. Lo scienziato ha gravi responsabilità. Potrebbe averlo capito il giovane Ettore Majorana che secondo Sciascia fuggì dalla responsabilità di aver scoperto qualcosa di inaudito. Concorda sicuramente Werner Heisenberg quando scrive in Fisica e Filosofia che: “L’invenzione di ordigni nucleari ha anche sollevato problemi completamente nuovi per la scienza e per gli scienziati. L’influenza politica della scienza è diventata molto più forte di quel che fosse prima della seconda guerra mondiale, il che ha gravato lo scienziato, specialmente il fisico atomico, di una responsabilità raddoppiata”. Un ingegnere a sua volta può inventare tecnologie “buone” o “cattive”. Il giudizio della bontà di una tecnologia non può tuttavia limitarsi alla formula “dipende dall’uso che se ne fa”, perché questa definisce volontaristicamente una finalità non data a priori e che invece potrebbe essere intrinseca, o non determinata da una volontà umana. Da qui deriva l’angoscia nei confronti della tecnica.
Nella letteratura, questo sinistro riflesso di un apocalittica fine nucleare ha lasciato la sua traccia che noi seguiremo a partire dalla prosa di un grande scrittore.
Scritta da Dino Buzzati si propone la novella dalla raccolta Sessanta Racconti, dal titolo Appuntamento con Einstein, buona lettura:
In un tardo pomeriggio dell’ottobre scorso, Alberto Einstein dopo una giornata di lavoro, passeggiava per i viali di Princeton, e quel giorno era solo, quando gli capitò una cosa straordinaria. A un tratto, e senza nessuna speciale ragione, il pensiero correndo qua e là come un cane liberato dal guinzaglio, egli concepì quello che per l’intera vita aveva sperato inutilmente. D’un subito Einstein vide intorno a sé lo spazio cosiddetto curvo, e lo poteva rimirare per diritto e per rovescio, come voi questo volume. Dicono di solito che la nostra mente non riuscirà mai a concepire la curvatura dello spazio, lunghezza larghezza spessore e in più una quarta dimensione misteriosa di cui l’esistenza è dimostrata ma è proibita al genere umano; come una muraglia che ci chiude e l’uomo, dirittamente volando a cavallo della sua mente mai sazia, sale, sale e ci sbatte contro. Né Pitagora né Platone né Dante, se oggi fossero ancora al mondo, neppure loro riuscirebbero a passare, la verità essendo più grande di noi. Altri invece dicono che sia possibile, dopo anni e anni di applicazione, con uno sforzo gigantesco del cervello. Qualche scienziato solitario – mentre intorno il mondo smaniava, mentre fumavano i treni e gli alti forni, o milioni crepavano in guerra o nel crepuscolo dei parchi cittadini gli innamorati si baciavano la bocca – qualche scienziato, con eroica prestazione mentale, tale almeno è la leggenda, arriverà a scorgere (magari per pochi istanti solo, come se si fosse sporto sopra un abisso e poi subito lo avessero tirato indietro) a vedere e contemplare lo spazio curvo, sublimità ineffabile della creazione. Ma il fenomeno avveniva nel silenzio e non ci furono feste al temerario. Non fanfare, interviste, medaglie di benemerenza perché era un trionfo assolutamente personale e lui poteva dire: ho concepito lo spazio curvo, però non aveva documenti, fotografie o altro per dimostrare che era vero. Quando però questi momenti arrivano e quasi da una sottile feritoia il pensiero con una suprema rincorsa passa di là, nell’universo a noi proibito, e ciò che prima era formula inerte, nata e cresciuta al di fuori di noi, diventa la nostra stessa vita; oh, allora di colpo si sciolgono i nostri tridimensionali affanni e ci si sente – potenza dell’uomo! – immersi e sospesi in qualche cosa di molto simile all’eterno. Tutto questo ebbe il professor Alberto Einstein, in una sera di ottobre bellissima, mentre il cielo pareva di cristallo, qua e là cominciavano a risplendere, gareggiando col pianeta Venere, i globi dell’illuminazione elettrica, e il cuore, questo strano muscolo, godeva della benevolenza di Dio! E benché egli fosse un uomo saggio, che non si preoccupava della gloria, tuttavia in quei momenti si considerò fuori del gregge come un miserabile tra i miserabili che si accorge di avere le tasche piene d’oro. Il sentimento dell’orgoglio si impadronì quindi di lui. Ma proprio allora, quasi a punizione, con la stessa rapidità con cui era venuta, quella misteriosa verità disparve. Contemporaneamente Einstein si accorse di trovarsi in un posto mai prima veduto. Egli camminava cioè in un lungo viale costeggiato tutto da siepi, senza case né ville né baracche. C’era soltanto una colonnetta di benzina a strisce gialle e nere, sormontata dalla testa di vetro accesa. E vicino, su un panchetto di legno, un negro in attesa dei clienti. Costui portava un paio di calzonigrembiule e in testa un berretto rosso da baseball. Einstein lo aveva appena sorpassato, che il negro si alzò, fece alcuni passi verso di lui e: ” Signore! ” disse. Così in piedi, risultava altissimo, più bello che brutto, di fattezze africane, formidabile; e nella vastità azzurra del vespero il suo sorriso bianco risplendeva. ” Signore ” disse il negro ” avete fuoco? ” e mostrava un mozzicone di sigaretta. ” Non fumo ” rispose Einstein fermatosi più che altro per la meraviglia. Il negro allora: ” E non mi pagate da bere? “. Era alto, giovane, selvaggio. Einstein cercò invano nelle tasche: ” Non so… con me non ho niente… non ho l’abitudine… spiacente proprio “. E fece per andare. ” Grazie lo stesso ” disse il negro ” ma… scusate… ” ” Che cosa vuoi ancora? ” fece Einstein. ” Ho bisogno di voi. Sono qui apposta. ” ” Bisogno di me? Ma che cosa…? ” Il negro disse: ” Ho bisogno di voi per una cosa segreta. E non la dirò che nell’orecchio “. I suoi denti biancheggiavano più che mai perché intanto si era fatto buio. Poi si chinò all’orecchio dell’altro: ” Sono il diavolo Iblìs ” mormorò ” sono l’Angelo della Morte e devo prendere la tua anima “. Einstein arretrò di un passo. ” Ho l’impressione ” la voce si era fatta dura ” ho l’impressione che tu abbia bevuto troppo. ” ” Sono l’Angelo della Morte ” ripeté il negro. ” Guarda. ” Si avvicinò alla siepe, ne strappò un ramo e in pochi istanti le foglie cambiarono colore, si accartocciarono, poi divennero grigie. Il negro ci soffiò sopra. E tutto, foglie, rametti e gambo volò via in una polvere minuta. Einstein chinò il capo: ” Accidenti. Ci siamo allora… Ma proprio qui, stasera… sulla strada? ” ” Questo è l’incarico che ho avuto. ” Einstein si guardò intorno, ma non c’era anima viva. Il viale, i lampioni accesi e laggiù in fondo, all’incrocio, luci di automobili. Guardò anche il cielo; il quale era limpido, con tutte le sue stelle a posto. Venere proprio allora tramontava. Einstein disse: ” Senti, dammi tempo un mese. Proprio adesso sei venuto che sto per terminare un mio lavoro. Non ti chiedo che un mese “. ” Ciò che tu vuoi scoprire ” fece il negro ” lo saprai subito di là, basta che tu mi segua. ” ” Non è lo stesso. Che conta ciò che sapremo di là senza fatica? È un lavoro di notevole interesse, il mio. Ci fatico da trent’anni. E ormai mi manca poco… ” Il negro sogghignò: ” Un mese, hai detto?… Ma fra un mese non cercare di nasconderti. Anche se ti trasferissi nella miniera più profonda, là io ti saprò subito trovare “. Einstein voleva ancora fargli una domanda, ma l’altro si era dileguato. Un mese è lungo se si aspetta la persona amata, è molto breve se chi deve giungere è il messaggero della morte, più corto di un respiro. Passò l’intero mese e di sera, riuscito a restar solo, Einstein si portò sul luogo convenuto. C’era la colonnetta di benzina e c’era la panca con il negro, solo che adesso sopra la tuta aveva un vecchio cappotto militare: faceva freddo, infatti. ” Sono qui ” disse Einstein, toccandogli una spalla con la mano. ” E quel lavoro? Terminato? ” ” Non è finito ” disse lo scienziato mestamente. ” Lasciami ancora un mese! Mi basta, giuro. Stavolta sono sicuro di riuscire. Credimi: ci ho dato dentro giorno e notte ma non ho fatto in tempo. Però mi manca poco. ” Il negro, senza voltarsi, alzò le spalle: ” Tutti uguali voi uomini Non siete mai contenti. Vi inginocchiate per avere una proroga. E poi c’è sempre qualche pretesto buono… “. ” Ma è una cosa difficile, quella a cui lavoro. Mai nessuno… ” ” Oh, conosco, conosco ” fece l’Angelo della Morte. ” Stai cercando la chiave dell’universo, vero? ” Tacquero. C’era nebbia, notte già da inverno, disagio, voglia di restare in casa. ” E allora? ” chiese Einstein. ” Allora va… Ma un mese passa presto. ” Passò sveltissimo. Mai quattro settimane furono divorate con tanta avidità dal tempo. E soffiò un vento gelido quella sera di dicembre, facendo scricchiolare sull’asfalto le ultime raminghe foglie: all’aria tremolava, di sotto al basco, la bianca criniera del sapiente. C’era sempre la colonnetta di benzina, e accanto c’era il negro con un passamontagna in testa, accoccolato come se dormisse. Einstein gli si fece vicino, timidamente gli toccò una spalla. ” Eccomi qui. ” Il negro si stringeva nel cappotto, batteva i denti per il freddo. ” Sei tu? ” ” Sì, sono io. ” ” Finito, allora? ” ” Sì grazie a Dio, ho finito. ” ” Terminato il grande match? Hai trovato quello che cercavi? Hai schiodato l’universo? ” Einstein tossicchiò: ” Sì ” disse scherzosamente ” in certo modo l’universo adesso è in ordine “. ” Allora vieni? Sei ben disposto al viaggio? ” ” Eh, certo. Questo era nei patti. ” D
‘un botto il negro balzò in piedi e fece una risata classica da negro. Poi diede, con l’indice teso della destra, un colpo sullo stomaco di Einstein, che quasi perse l’equilibrio. ” Va, va, vecchia canaglia… Torna a casa e corri, se non vuoi prenderti una congestione polmonare… Di te, per ora, non me ne importa niente. ” ” Mi lasci?… E allora, perché tutte quelle storie? ” ” Importava che tu finissi il tuo lavoro. Nient’altro. E ci sono riuscito… Dio sa, se non ti mettevo quella paura addosso, quanto l’avresti tirata ancora in lungo. ” ” Il mio lavoro? E che te ne importava? ” Il negro rise: ” A me niente… Ma sono i capi, laggiù, i demoni grossi. Dicono che già le tue prime scoperte gli erano state di estrema utilità… Tu non ne hai colpa, ma è così. Ti piaccia o no, caro professore, l’Inferno se ne è giovato molto… Ora fa assegnamento sulle nuove… ” ” Sciocchezze! ” disse irritato Einstein. ” Che vuoi trovare al mondo di più innocente? Piccole formulette sono, pure astrazioni, inoffensive, disinteressate… ” ” E bravo! ” gridò Iblìs, dandogli un altro botto con il dito, nel mezzo dello stomaco. ” E bravo! Così, mi avrebbero spedito per niente? Si sarebbero sbagliati, secondo te?… No, no, tu hai lavorato bene. I miei, laggiù, saranno soddisfatti… Oh se tu sapessi! ” ” Se io sapessi cosa? ” Ma l’altro era svanito. Né si vedeva più la colonnetta di benzina. Neppure lo sgabello. Solo la notte, e il vento e lontano, laggiù, un andirivieni di automobili. A Princeton, New Jersey.

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