Università, diminuiscono gli iscritti ma la spesa è sempre la stessa

Sempre meno diplomati scelgono l’istruzione terziaria dell’Università. Oggi, infatti, solo il 61% di loro decide di immatricolarsi portando indietro le lancette dell’orologio al 2000 quando la percentuale era di tre punti superiore. Certo, sono aumentati nel frattempo i 19enni che ottengono il diploma ma molti sono sfiduciati nell’investimento universitario e scelgono di entrare direttamente nel mondo del lavoro; lo stesso che non riesce ad assorbire gli già esegui numeri di dottori sul mercato. Una certificazione negativa se confrontata con quanti, tra i 25 e i 34 anni, hanno conseguito una laurea in Italia (24,8%) rispetto la media UE (34,5%) e OCSE  (35%); un misero penultimo posto davanti la sola Romania.  Inoltre la forbice aumenta tra Nord e Sud, – 30% nel Meridione contro un -3%. Senza contare quel 14,7% di giovani che decidono di abbandonare gli studi, dato ancora elevato rispetto la media UE.

Eppure secondo i dati occupazionali di AlmaLaurea investire sul diploma universitario conviene sia per quanto riguarda il tasso di occupazione (+13%), sia per quanto concerne la retribuzione media (+42%). Anche l’osservatorio Ocse certifica tale degradante situazione, ricordando che la spesa pubblica per questo comparto si attesta intorno all’1% del Pil quando la media Ocse è dell’1,6%. Però è lo stesso osservatorio che sottolinea come l’Italia, sebbene investa poco in ricerca universitaria, abbia elevati standard di produttività per numero di ricercatori: dietro soltanto a Germania e Scandinavia. E questo a fronte di uno scarso investimento in ricerca e sviluppo nel comparto pubblico, come nel privato; anche se quest’ultimo non è stato molto incentivato fiscalmente dagli ultimi governi.

I tagli al comparto universitario non sono certo stati risibili, passando da 13,6 miliardi nel 2007/2008 a 12,3 miliardi del 2015/2016, e i costi, negli anni, sembrano essere stati per lo più scaricati su studenti e famiglie sotto forma dell’aumento delle rette. Ciò ha contribuito a far raggiungere un amaro  terzo posto al nostro paese, subito dopo Olanda e Gran Bretagna.  Senza che venisse aumentata però la percentuale di borse di studio, ferma al 12%, a differenza dei due paesi della Manica. Un quadro poco idilliaco se considerato che le nuove procedure introdotte dalla “legge Gelmini”, riguardanti il calcolo dei finanziamenti dati agli Atenei su parametri virtuosi di ricerca e servizi, sono state bloccate dalla sentenza dell’11 maggio della Consulta – dopo ricorso al Tar dell’Università di Macerata – che ha dichiarato il meccanismo illegittimo “per deficit di delega”; lasciando di fatto aperta la via dei ricorsi. Un’ulteriore battuta d’arresto sull’abbandono della spesa storica, richiesta ormai da tutti gli osservatori indipendenti, diventata l’ultima materia di scontro tra le Università, mentre, di fuori, molti meno studenti decidono di bussare alle loro porte.

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