Dottorati, il 90,5% sarà espulso dell'università

L’università italiana non riesce a trattenere i suoi ricercatori: Il 56,2 per cento dei dottori di ricerca è destinato a uscire dal mondo accademico dopo uno o più assegni. Di questi, il 29 per cento dopo un contratto da ricercatore rtd-A. In totale, ben il 90,5 per cento degli assegnisti con le regole vigenti sarà espulso dall’università italiana. Inoltre quasi un dottorato su due è scomparso in dieci anni nel mondo accademico del Bel Paese.
L’ impietosa fotografia dell’ottava indagine sul tema, realizzata dall’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia e presentata ieri in Senato (“Niente di nuovo sul fronte occidentale”, il titolo), parla di un doppio segno meno: sia sul breve che sul medio periodo. I posti banditi dagli atenei italiani, dopo il timido aumento registrato l’anno precedente, sono di nuovo in calo del 3,5 per cento. Dai 9.288 del 2017 sono passati a 8.960 nell’anno appena concluso. Se si prende in considerazione il periodo che va dal 2007, anno precedente alla conversione in legge del Decreto Gelmini, al 2018 i posti si sono ridotti del 43,4 per cento. Quasi la metà in dodici stagioni. Cresce lievemente il numero dei corsi allestiti: dopo aver toccato il minimo nel 2014 (erano 896), nell’anno chiuso a dicembre siamo risaliti a 967. Nel 2007 però – epoca pre-Gelmini – i corsi per un dottorato di ricerca erano ben 2.223.
In un’analisi regionale, il Nord in dodici anni ha perso il 37 per cento dei posti, il Centro il 41,2 per cento e il Mezzogiorno addirittura il 55,5. Aumentano, quindi, le differenze che già esistevano tra le macroaree del Paese: oggi il Settentrione conta il 48,2 per cento del totale dei dottorati banditi in Italia, l’Italia centrale il 29,6 e quella meridionale il 22,2. L’elaborazione territoriale, qui chiamata “compressione selettiva”, spiega come dal 2007 al 2012 il Sud perda posti a bando a vantaggio del Nord. Inoltre, nel triennio successivo tra il 2012 e il 2014 sia il Centro ad avvantaggiarsi del declino dei titoli nel Meridione.
Diminuiscono i dottrati non pagati, forse l’unica nota positiva del rapporto. Nel 2018 solo il 16,9 per cento era privo di borsa quando ancora nel 2010 la quota ammontava al 39 per cento. Le tasse di iscrizione – seguendo i risultati di un questionario con oltre cinquemila risposte – variano sul territorio. Il 50 per cento dei dottorandi versa meno di 200 euro, la restante metà corrisponde importi in un rangelargo, tra i 200 e i 2.000 euro.
Quattro posti da dottorato ogni dieci sono banditi da soli dieci atenei. Resta in testa La Sapienza di Roma, 757 posti offerti nel 2018. Entra al secondo posto l’Università di Bologna e scende al terzo Padova. Quindi, proseguendo in ordine decrescente, Roma Tor Vergata, Politecnico di Milano, Genova, la Federico II di Napoli, Torino (in discesa di tre posti), la Statale di Milano e Trento (per la prima volta tra i migliori dieci atenei per quantità di posti a bando).
Si abbassa l’etù media dei ricercatori. Un dottore di ricerca italiano ha, in media, ventinove anni e mezzo (prende il titolo uno o due anni dopo la laurea magistrale) e nelle ultime stagioni sono aumentati gli under 30. Cioè, il titolo è andato a studiosi più giovani. Due terzi, poi, si dottorano nella stessa università in cui si sono laureati.
Fare ricerca è vivere una vita precaria. Per quanto riguarda il post-doc (o assegnista di ricerca), i dati Cineca elaborati dall’Adi rilevano che all’interno delle università il personale precario supera ormai quello stabile: 68.428 lavoratori a tempo determinato e 47.561 a tempo indeterminato. Tra il personale stabile, solo il 37 per cento è di sesso femminile. Tra i precari, il 47 per cento è costituito da donne e il 53 per cento da uomini. La percentuale femminile si riduce progressivamente mentre si procede verso le posizioni apicali: sono il 50,3 per cento tra gli assegnisti, il 41,1 tra i ricercatori a tempo determinato di tipo B, il 37,5 tra i professori associati e solo il 23,1 tra i professori ordinari.

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