Concorso scuola, i dottori di ricerca: "Vogliamo avere le stesse possibilità degli altri"

L’imminente concorso per il reclutamento nella scuola sarebbe in dirittura di arrivo e in queste ore nelle stanze di viale Trastevere si stanno definendo gli accordi tra tutte le parti in causa. Nella riunione del 3 giugno i sindacati hanno ottenuto la rassicurazione che il PAS porterà all’abilitazione tutti gli interessati. La proposta dei sindacati (FLCGIL, CISL, UIL, SNALS e Gilda) è di permettere l’accesso in primis ai docenti che hanno maturato il requisito nella scuola statale, circa 55 mila docenti su 48.536 posti spalmati su tre anni. Questi i numeri in campo, la più grande assunzione degli ultimi anni.
Ma c’è chi preme per entrare nella partita: sono i dottori di ricerca che vorrebbero avere la possibilità di partecipare alla pari al bando senza la zavorra dell’anzianità. Molti di loro, complici i social, si sono riuniti in un gruppo di coordinamento dei vari comitati nati in modo spontaneo. Uno di questi è il Comitato per la Valorizzazione Italiana del Dottorato di ricerca, con 8mila iscritti tra dottorati e dottorandi che recentemente ha scritto una lettera aperta per denunciare la situazione. Abbiamo intervistato uno dei suoi esponenti, la dottoressa Silvia Crupano, per capire quali siano le loro motivazioni.
Perché questa battaglia dei dottori di ricerca per accedere all’insegnamento nella scuola secondaria?
In Italia c’è questa idea che prendere un dottorato di ricerca serva solo ai fini accademici universitari. Basti pensare che molte aziende intendono ancora il dottorato come mera formazione e non come attività lavorativa. E questo benché già nel 2017 ci sia stato il riconoscimento di attività lavorativa del dottorato di ricerca con il sussidio di occupazione alla fine del percorso. E poi c’è il problema che noi andiamo a dar fastidio alle logiche universitarie che spesso sfruttano i dottori di ricerca per corsi ed esami dietro pagamenti irrisori. Anche qui il paradosso: i dottori di ricerca andranno a valutare nei percorsi abilitati gli insegnanti ma non possono accedervi, allora delle due l’una.

Cosa avete ottenuto finora dal Miur?
Per il momento la possibilità aperta per i dottori di ricerca è quella di accedere ai PAS, però solo ai fini abilitativi e non per l’accesso. Mentre i precari alla fine di questi percorsi dovrebbero essere immessi in ruolo nei posizioni lavorative che già occupano. Una lotta tra poveri insomma, con il paradosso che molti dottori di ricerca non sono più così giovani.
Cosa chiedete al ministro Bussetti? 
Un equo concorso. Poter accedere alla pari, sia ad un concorso ordinario, sia ai PAS, facendo tutti le stesse prove e superando lo stesso esame. Invece qui sembra che i dottori di ricerca debbano partire con una palla al piede, una martellata sul ginocchio.
L’accesso comporterebbe anche un potere contrattuale dei ricercatori verso gli Atenei?
Certamente. Se si avessero due alternative alla pari, docenza accademica e docenza scolastica, si potrebbe scegliere liberamente o fare entrambi come il vecchio doppio canale per cui i docenti universitari potevano insegnare a scuola o viceversa con una piena legittimazione della scuola che invece oggi viene vista più come un ammortizzatore sociale e ci si lamenta della figura dell’insegnante. Tale libertà porterebbe sicuramente un potere contrattuale maggiore verso l’università, perché potrebbe rifiutarsi di sottostare a contratti a rimborso spese di 4mila euro l’anno. La scuola per molti non è un ripiego perché tanti di noi hanno la vocazione all’insegnamento. Ma anche qui: l’accesso è quasi più difficile che nell’ambiente universitario.
E si finisce con il fare altro perdendo questa ricchezza di capitale umano che all’estero viene valorizzata. 
Purtroppo è così. Ci sono dottori di ricerca che ancora sono sostenuti dalle proprie famiglie o che si sono dovuti adattare a fare lavori non attinenti con i loro studi, con tutto lo spreco per lo stato e la collettività che ha speso centinaia di migliaia di euro per formarli, questo non va dimenticato. Oppure scappare all’estero. I famosi “cervelli in fuga”, che per necessità emigrano e vanno a dare le proprie competenze in altri paesi che poi cercano, giustamente, di tenerseli stretti. Basti pensare che in Germania, dove ogni anno accedono circa 30mila persone al dottorato – in Italia sono 10mila – che poi spesso accedono direttamente al mondo delle aziende e non in quello accademico, dove portano le loro conoscenze e la loro esperienza maturata. Questo perché il dottore di ricerca è una delle figure probabilmente più indicate per poter trasmettere il know-how alle nuove generazioni.
Prevedete di organizzare iniziative di sensibilizzazione?
Ci stiamo confrontando per avviare dei dibattiti pubblici perché ci rendiamo conto che questa problematica non è ben chiara all’opinione pubblica. Anche perché questa indifferenza ed incertezza causa profonde sofferenze in primis a noi. Una doccia gelata e lo scontro con la realtà fa sempre bene ma nel lungo periodo è svilente. Anche per il Paese, perché uno pensa di poter contribuire alla collettività; a maggior ragione nella scuola dove oggi servono prospettive nuove e diverse. Perché se si immettono nel circuito scolastico esperienze diverse: dottorati, insegnanti di lungo corso, tecnici, chi ha studiato all’estero o chi ha lavorato nel privato. Questo permetterebbe di offrire ai ragazzi un ventaglio di conoscenze che attutirebbe lo scontro che avranno con una realtà a cui oggi non sono preparati.
La lettera scarlatta dei Dottori di ricerca

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