Università, assegnisti di ricerca: soltanto 1 su dieci ce la fa

L’Italia investe oltre 14 miliardi ogni anno per formare personale che poi non assume. Nell’indagine dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca la fotografia di una situazione che non accenna a migliorare

L’Italia butta 14 miliardi di euro ogni anno per formare talenti che poi accompagna alla frontiera: spenderanno altrove conoscenze affinate da scuole e università nazionali. Il motivo principe per cui i talenti, a volte anche i semi-talenti, se ne vanno all’estero è che qui non li assumiamo. Al netto dei molti concorsi profilati dell’università italiana e dei bandi con tutoraggio sindacale del Cnr, il sistema dell’alta formazione assume poco e niente.
Un’indagine dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia (Adi) rivela questo: dei 13.029 assegnisti che oggi lavorano in un ateneo statale con un dottorato alle spalle – parliamo di ricercatori pagati per un periodo da uno a tre anni, contratto rinnovabile una volta – solo il 9,5 per cento troverà una collocazione a tempo indeterminato all’interno di una delle sessantacinque università statali del Paese. Entrerà in maniera definitiva nel sistema accademico. Sarà un professore associato, di fatto, visto che i ricercatori a tempo indeterminato la Legge Gelmini li ha semplicemente aboliti.
C’è un blocco di giovani che ha speso vent’anni su libri e slide – il 90,5 per cento dei dottorati che ha strappato un assegno di ricerca, 11.791 studiosi laureati e post-laureati – che, se non cambierà la direzione degli investimenti nel Paese, nel prossimo sessennio sarà espulso dall’università. Parliamo dei più qualificati, la crème del sapere. Nello specifico, il 56,2 per cento non rientrerà dopo i due assegni ottenuti: avrà sei anni di tempo per costruirsi un futuro all’estero in un altro campo. Il 29 per cento, ancora, riuscirà ad approdare a un contratto a tempo determinato di Tipo A e poi abbandonerà. Il 5,3 per cento prenderà un contratto di tipo B (sempre a tempo determinato) finito il quale dirà addio all’accademia.
L’ottava indagine Adi
È l’ottava indagine dell’Adi sulla situazione di dottori e dottorandi italiani, ma se si vanno a controllare le precedenti si trovano conferme – anche peggiorative – sulla possibilità che ha un “alto formato” di compiere il suo ciclo lavorativo nell’università italiana e spendere i suoi saperi nel Paese. L’indagine del 2016, la sesta, dice che “nei prossimi anni” solo il 6,5 per cento di chi è assegnista di ricerca “riuscirà ad accedere a una posizione di professore associato negli atenei italiani”.
Nel 2015 i sopravvissuti erano, in proiezione, l’8,1 per cento. Nel 2014 il 3,4 per cento. Nel 2013 e nel 2012 il 7 per cento. Dal 2010 – Legge Gelmini approvata in piena crisi finanziaria – ad oggi la situazione è, con alti e bassi, lievemente migliorata. Ma le percentuali di assunzione da uno su dieci restano da realtà patologica. Spiegano i dottori dell’Adi: “L’espulsione degli assegnisti di ricerca rappresenta uno sperpero di personale qualificato per la cui formazione il sistema può arrivare a investire fino a 140.000 euro pro-capite”. Limitandosi ai costi pubblici del dottorato e dell’assegno di ricerca. Questo livello di spreco è stato indicato dall’ex ministro dell’economia Giovanni Tria.
Tornando all’ultima indagine, l’ottava, presentata lo scorso 8 maggio, si scopre che i posti di dottorato banditi in Italia nel 2018 sono tornati a flettere: dai 9.288 del 2017 a 8.960 (-3,5%). Dal 2007 i dottorato chiamati dalle singole università si sono ridotti del 43,4 per cento (il 55,5 per cento al Sud). No, i tagli all’università non trovano inversione.
L’imbuto dell’Abilitazione nazionale
Sarebbe persino virtuoso questo meccanismo se fosse ispirato da una iperselezione dei docenti italiani. No, avviene per il sottofinanziamento delle università e della loro ricerca. Nell’intero sistema che si regge su 116 mila lavoratori, il 59 per cento è precario. E il sorpasso degli instabili sugli stabili è avvenuto in tempi recenti. Ancora, per spiegare gli imbuti che si creano negli atenei del Paese, dal 2012 per poter insegnare bisogna prendere l’Abilitazione scientifica nazionale. Solo per la prima tornata – dati del marzo 2018, offerti dal Cipur – su 7.149 abilitati il 49 per cento non era stato chiamato da alcuna università. Pronti per l’insegnamento in cattedra, ma senza posto.
Nel sistema universitario i docenti a contratto sono la categoria più numerosa tra i professori: sono più del doppio degli ordinari e settemila in più degli associati. Per dire dell’uso sistematico del lavoro precario anche per fare lezione, erogare didattica. Alla Normale di Pisa i docenti a tempo determinato sono oltre il triplo di quelli assunti. Il sottofinanziamento spinto del sistema accademico italiano ha portato a un invecchiamento strutturale della classe docente universitaria: nel 2005 i professori e ricercatori a tempo indeterminato sotto i trentaquattro anni erano 3.105, nel 2017 solo 42.
Francesco Sinopoli, segretario della Flc Cgil: “I cervelli italiani sono immersi in un coacervo di regole concorsuali spesso gestite in maniera feudale oppure ristrette a pochissimi numeri perché lo Stato non garantisce adeguate risorse. Eppure da anni dottorandi, assegnisti, borsisti, collaboratori, ricercatori a tempo determinato contribuiscono con le loro ricerche ad avanzamenti dei processi culturali e a scoperte innovative in tutti i campi. Nelle scorse settimane all’Università di Modena-Reggio Emilia è stata aperta una breccia per la cura dell’Alzheimer. I protagonisti delle scoperte cliniche hanno tutti, da anni, contratti a termine senza diritti e senza tutele”. Chiude Sinopoli: “Non servono più analisi, servono 1,5 miliardi di euro vincolati a reclutamento, sblocco del turnover, separazione normativa delle assunzioni e delle progressioni di carriera, una riforma del pre-ruolo che non condanni le giovani generazioni a rimanere al palo per i prossimi anni”.

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