L'appello di 200 accademici: "L'università soffoca, disintossichiamola"

Il grido dei professori contro la burocrazia e criteri aziendali applicati alla formazione: “Ricerca e insegnamento da tempo non sono più liberi”. Tra i firmatari: Tomaso Montanari, Marco Belpoliti, Alessando Dal Lago e Marco Revelli
Sparita (se mai c’è stata) dall’agenda politica delle priorità del Paese, archiviate in fretta le dimissioni dell’ex ministro Lorenzo Fioramonti che reclamava più risorse, l’università italiana langue. Soffocata dalla burocrazia, “intossicata da una (finta) aziendalizzazione e da meccanismi di valutazione applicati con raro fanatismo” la sintesi che viaggia in un appello firmato da oltre 200 accademici. Il titolo è significativo: “Disintossichiamoci – Sapere per il futuro”. Un documento pubblicato su Roars che sta girando negli atenei per raccogliere ancora più adesioni.

Più che un manifesto sul futuro dell’università italiana, è un grido: “Ricerca e insegnamento – è un fatto, eppure sembra un tabù esplicitarlo – da tempo non sono più liberi – si legge – Sottoposta a una insensata pressione che incalza a ‘produrre’ ogni anno di più, a ogni giro di più, la ricerca è in preda a una vera e propria bolla di titoli, che trasforma sempre più il già esiziale publish or perishin un rubbish or perish. Nello stesso tempo, è continua la pressione ad ‘erogare’ una formazione interamente modellata sulle richieste del mondo produttivo. La modernizzazione che ha programmaticamente strappato l’università via da ogni torre di avorio ha significato non altro che la via, la ‘terza via’, verso il mondo degli interessi privati”.
E ancora: “Proprio grazie all’imporsi di queste logiche di mercato, la libertà di ricerca e di insegnamento – sebbene tutelata dall’art. 33 della Costituzione – è ridotta oramai a libertà di impresa. Il modello al quale le è richiesto sottomettersi è un regime di produzione di conoscenze utili (utili anzitutto a incrementare il profitto privato), che comanda modi tempi e luoghi di questa produzione, secondo un management autoritario che arriva ad espropriare ricercatori e studiosi della loro stessa facoltà di giudizio, ora assoggettata a criteri privi di interna giustificazione contrabbandati per oggettivi”.
I promotori sono Valeria Pinto, professoressa di Filosofia alla Federico II di Napoli, il sociologo Davide Borrelli (università Suor Orsola Benincasa di Napoli), Maria Chiara Pievatolo, docente di filosofia politica all’ateneo di Pisa e Federico Bertoni, che insegna Teoria della letteratura a Bologna. “E’ la prima base per proporre – o per tentare almeno di concepire – un altro modello di ricerca e di conoscenza”, spiega Bertoni. Tra le firme, quelle di Tomaso Montanari, Alberto Abruzzese, Marco Belpoliti, Alessandro Barbero, Alessando Dal Lago, Marco Revelli, Antonella Riem.
L’appello arriva alla vigilia della terza valutazione nazionale della qualità della ricerca (Vqr) relativa al periodo 2015-2019. Un sistema da sempre contestatissimo, rivisto in alcune linee guida a novembre scorso con il nuovo decreto del Miur. L’Anvur ha appena pubblicato il bando per selezionare i gruppi di esperti valutatori. E l’accademia è in fibrillazione.
Il documento dei 200 è netto sui meccanismi di valutazione della ricerca scientifica: “Si tratta di numeri e misure che di scientifico, lo sanno tutti, non hanno nulla e nulla garantiscono in termini di valore e qualità della conoscenza. Predefinire percentuali di eccellenza e di inaccettabilità, dividere con mediane o prescrivere soglie, ordinare in classifiche, ripartire in rating le riviste, tutto questo, insieme alle più vessatorie pratiche di controllo sotto forma di certificazioni, accreditamenti, rendicontazioni, riesami, revisioni ecc., ha un’unica funzione: la messa in concorrenza forzata di individui gruppi o istituzioni all’interno dell’unica realtà cui oggi si attribuisce titolo per stabilire valori, ossia il mercato, in questo caso il mercato globale dell’istruzione e della ricerca, che è un’invenzione del tutto recente”.
Il tema è cruciale, riguarda la valutazione del sapere, e dunque la destinazione di fondi che orientano la ricerca. “Sempre più spesso oggi si scrive e si fa ricerca per raggiungere una soglia di produttività piuttosto che per aggiungere una conoscenza all’umanità”, la denuncia.
Secondo l’analisi contenuta nell’appello, “la logica del mercato concorrenziale si è imposta come vero e proprio comando etico, opporsi al quale ha comportato, per i pochi che vi hanno provato, doversi difendere da accuse di inefficienza, irresponsabilità, spreco di danaro pubblico, difesa di privilegi corporativi e di casta”.
I firmatari del documento reclamano un cambio di rotta radicale. “Sono in molti ormai a ritenere che questo modello di gestione della conoscenza sia tossico e insostenibile a lungo termine. I dispositivi di misurazione delle performance e valutazione premiale convertono la ricerca scientifica (il chiedere per sapere) nella ricerca di vantaggi competitivi (il chiedere per ottenere), giungendo a mettere a rischio il senso e il ruolo del sapere per la società”. Dunque, “è giunto il momento di un cambiamento radicale, se si vuole scongiurare l’implosione del sistema della conoscenza nel suo complesso. La burocratizzazione della ricerca e la managerializzazione dell’istruzione superiore rischiano di diventare la Chernobyl del nostro modello di organizzazione sociale”.
Le vie d’uscita proposte? “Quel che serve oggi è riaffermare i principi che stanno a tutela del diritto di tutta la società ad avere un sapere, un insegnamento, una ricerca liberi – a tutela, cioè, del tessuto stesso di cui è fatta una democrazia – e per questo a tutela di chi si dedica alla conoscenza. Serve una scelta di campo, capace di rammagliare dal basso quello che resiste come forza critica, capacità di discriminare, distinguere quello che non si può tenere insieme: condivisione ed eccellenza, libertà di ricerca e neovalutazione, formazione di livello e rapida fornitura di forza lavoro a basso costo, accesso libero al sapere e monopoli del mercato”.
larepubblica

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