La priorità del prossimo Governo? Gli studenti: la lotta al precariato

Alla politica sembrano quasi allergici. Quando li avvicini nei corridoi, tra una lezione e l’altra e provi a chiedergli delle prossime elezioni, gli studenti preferirebbero parlare di tutt’altro. Su una cosa però sono compatti: qualunque sia il colore del prossimo governo, la priorità dovrà essere la lotta al precariato.
È questa la risposta di oltre il 40% di un campione di 460 universitari intervistati nelle scorse settimane dal Corriere dell’Università e del Lavoro. È la percentuale che li accomuna di più. Le risposte sulla campagna elettorale preferita e sulle intenzioni di voto hanno fornito dati piuttosto variegati, idee diverse, pareri contrastanti. Solo la volontà di mettere un punto ad una situazione ritenuta ormai fuori controllo, unisce gli universitari dai diversi credi politici.
Ne abbiamo parlato il professor Edoardo Ghera, presidente dell’Associazione Italiana del Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale e docente di Diritto del Lavoro a La Sapienza.
Professore, crede che ci sia un modo per regolamentare meglio il mondo dei contratti a progetto?
In verità il precariato è un problema giuridico solo in seconda battuta perché in primo luogo è un problema economico. Il precariato non nasce da una distorsione delle norme, ma dalla esistenza di una larga parte del sistema produttivo che non è in grado di assicurare delle posizioni di lavoro stabile come sarebbe auspicabile.
In che senso?
Non è tanto un problema di regolamentazione legislativa, che in Italia c’è. Abbiamo una legislazione che disciplina e controlla le forme di assunzione temporanea. Il nostro Paese ha avuto negli ultimi anni un aumento del tasso di occupazione, ma si tratta di un’occupazione mal pagata. Credo che la questione salariale specialmente i giovani ai primi impieghi.
Però è anche vero che la normativa spesso viene aggirata.
Questo non dovrebbe avvenire e conosciamo bene il caso dei call center. Poi ci sono circolari del ministero su certe tematiche e questa è proprio la riprova che il problema non è di tipo giuridico: l’elusione della disciplina, che esiste ed è fatta in modo tale da impedire questa smodata precarizzazione, è possibile perché i giovani non hanno alternative valide e sono costretti a stare a questo gioco.
Lei crede che la legge 30 sia riuscita a far diminuire la disoccupazione o che abbia dato il via libera alla precarizzazione del lavoro giovanile?
Credo che la legge 30 non ha avuto un effetto negativo di incentivo alla precarizzazione, ritengo anche, però, che non abbia avuto un effetto opposto, di aumentare l’occupazione, sia pure a tempo determinato. Può invece aver avuto l’effetto di facilitare la emersione di situazioni che diversamente sarebbero rimaste occulte.
Comunque non credo che una legge, qualunque essa sia, abbia l’effetto di modificare la situazione occupazionale: è un problema collettivo, di politica economica.
Cosa pensa delle proposte di alcuni partiti di un compenso minimo legale?
È un discorso molto suggestivo e complesso, ma bisognerebbe capire cosa vuol dire, si riferisce alle ore e i giorni che si lavorano? Oppure si vuole dire che faccia anche da sussidio per i periodi di occupazione? Bisognerebbe chiarirlo e chiarire anche da dove si prendono i soldi. Ma il problema del precariato non è di tipo salariale, ma della durata dell’occupazione.
Cosa consiglierebbe ai ragazzi che per anni sono inquadrati con co.co.pro dai progetti interminabili e surreali, ma che, se alzassero la voce, perderebbero il posto di lavoro?
Certamente per chi vive queste situazioni, come per il caso del call center, l’unione fa la forza. Direi di mettersi insieme, di ricorrere alla tutela sindacale, di non abbandonare la possibilità di tutelare i propri diretti. Se una persona prova che quel progetto non è un vero progetto, ma il mascheramento di un’attività continuativa e senza particolari caratteristiche di autonomia, allora le cause servono. Ma non è detto che quando si vince il problema è risolto: si può ottenere un indennizzo, un po’ di denaro per il passato, ma non c’è garanzia di occupazione per il futuro.
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