Studenti fuori Onda alla ricerca del sapere

foto-per-apertura-speciale.jpgScoraggiati. Infastiditi da ogni infiltrazione politica. Sorridenti. Arrabbiati. E più informati del previsto. Noi del Corriere ci siamo intrufolati tra di loro, e ne abbiamo saggiato la pazienza nel rispondere alle nostre domande. Ne è venuto fuori un corposo pacco di fogli A4 riempiti dai dati emersi in 210 colloqui con ragazzi universitari che ogni mattina siedono nelle aule degli atenei di Roma e Napoli. Niente di statistico, non avevamo quest’obiettivo.

Il nostro intento era comprendere quale fosse il grado di agitazione molecolare all’interno del corpo studentesco dopo il passaggio dell’Onda, e dopo gli annunci di riforma strutturale del sistema universitario italiano sbandierati dal Ministro per l’Istruzione, Maria Stella Gelmini. Niente di statistico, o almeno non solo. Ma tutto completamente vero.

Il sondaggio. Prima domanda: “Cosa ne pensi delle proteste dei tuoi colleghi universitari?”, prima sorpresa: su 210, infatti, soltanto 73 rispondono convinti che “sono giustificate”. Ben 42, dimostrano scarso interesse nei confronti dell’Onda e dei suoi tentativi di riflusso di quest’anno. E tutti gli altri affermano che le proteste “non evidenziano gli elementi importanti dei problemi veri”.I commenti nel dare le risposte sono stati ancora più illuminanti. Perché disegnano una voglia di movimento “viola” all’interno delle facoltà, un movimento che si senta confortato da una proposta di riforma che parta dal basso, soprattutto libera e scevra da connotazioni politiche. Ecco: questo è, secondo il nostro campione, il primo problema dell’Onda: l’essere politicizzata. Basata su contrapposizioni pregiudiziali.

E il problema della Gelmini? È quello di qualsiasi riforma calata dall’alto, che si ammala (come in un contrappasso) di scarsa partecipazione, e poco convincimento sulle reali esigenze degli studenti con sete di conoscenza e formazione in senso lato. Ecco il secondo elemento che sembra emergere da un movimento “viola” che in sordina emette i suoi primi “vagiti” nell’universo – facoltà: la voglia di partecipare.

Un buon 30%, infatti, si dice pronto ad attivarsi personalmente per lanciare proposte, discutere progetti, immaginare alternative. Tuttavia, la maggioranza non crede sia possibile e rinuncia ad ogni forma di cambiamento. Perché non crede né nel sistema istituzionale delle facoltà né in quello delle associazioni studentesche (“troppo coinvolte politicamente”).

Eccoli qui gli studenti Fuori-Onda: una fotografia di mille volti con tante parole in mente e a fior di bocca, ma poca voglia di esprimerle per scarsa fiducia verso tutti gli attori che, a vario titolo, affermano di voler risolvere i problemi dell’Università italiana. Ma quali sono i veri ostacoli apparentemente insormontabili del nostro sistema universitario? I problemi “veri”.

Sconfitto numero uno: il 3+2. “Ci ha trasformati in carne da credito”. “Ha dilatato i programmi didattici, parcellizzando al tempo stesso la conoscenza”. “Ha frazionato il nostro curriculum in un florilegio di esamini superficiali e, pertanto, inutili”. Insomma: un vero e proprio tracollo formativo. Supportato da un dato: gli studenti delle lauree a ciclo unico dimostrano infatti meno disagio nei confronti dei propri programmi didattici. “Programmi didattici”, tra l’altro, nemico pubblico numero uno, soprattutto quando sono “scritti con eccessivo conformismo verso “verità rivelate” e poco aderenti alle vere necessità lavorative”. Quindi: il 3+2 non gli piace. Anzi, lo odiano proprio.

Così come non gli piace la struttura attuale degli organi accademici. Specialmente quando si tratta di controllare la qualità della didattica. “Gli organi accademici – si legge nello spazio dedicato alle proposte – devono esercitare un maggior controllo sui docenti”. Ed ancora “il reclutamento universitario – altra proposta – deve essere sganciato dalle lobby partitiche accademiche”.

Finiamo il dottorato ed emigriamo”. Intervistando i dottorandi viene lo sconforto. Le motivazioni dell’emigrazione sono snocciolate con naturalezza disarmante. È una condizione normale, che non viene nemmeno messa in discussione. I docenti, o meglio, quei docenti che sono seriamente coinvolti nella didattica sono i primi ad indicare la via dell’estero come panacea professionale e, per molti versi, esistenziale.

“Estero” è oramai la parola magica che cura ogni insoddisfazione lavorativa e appaga la sana ambizione del lavoratore-studioso. Anche perché, qui da noi, la “ricerca” non dà corpo ai sogni. Proprio quella “ricerca” assurta al ruolo di emblema dello sviluppo della nostra società civile in mille e uno discorsi di politici, studiosi, professionisti e cattedratici. E che, come per magia contabile, spesso si lega ad un altro vocabolo nefasto: i “tagli”.

Eccoli qua: torniamo all’eterna e ambigua gestione della pecunia. Tanti sono gli studenti che lamentano visibili condizioni economiche non favorevoli. Primo sintomo: strutture. “Carenti”. “Inadeguate”. Secondo sintomo: le tasse. Troppo alte, quasi per tutti gli intervistati. Che, viste le tanti mani intrufolate nei loro portafogli, cercano conforto nel sacrosanto diritto allo studio. “Fotocopiare un libro, invece di comprarlo, diventa spirito di sopravvivenza”.

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