Il lavoro intellettuale va pagato

coglione no

Il lavoro intellettuale va pagato. Sembra un’ovvietà, eppure in molti continuano a far finta di nulla. In una realtà in continuo divenire come quella attuale, però, bisognerebbe mettere dei paletti. Sì, perché sembra quasi strano, oggi, retribuire il lavoro intellettuale creativo: l’unico, cioè, non automatizzabile, quello importante per il futuro, quello che tanti giovani cercano di portare avanti tra retribuzioni negate e paghe da fame. Fotografi, registi, scrittori, grafici, web designer.

Il problema riguarda anche chi scrive, chi si occupa di comunicazione, di produzione o di editoria, chi organizza iniziative culturali, chi fa teatro o musica – scrive Annamaria Testa su Internazionale. Riguarda illustratori, industrial designer e progettisti, architetti, gente che opera nel terzo settore e tanti altri. Riguarda professioni che sono intrinsecamente intellettuali e creative anche se non ne hanno l’etichetta: per esempio i ricercatori, che sopravvivono con compensi irrisori. Riguarda – perché anche questo è un lavoro che va valorizzato come intellettuale e creativo – chi insegna, e lo fa bene e con passione.

Stefano De Marco, Niccolò Falsetti e Alessandro Grespan hanno sollevato l’attenzione sul tema, grazie alla campagna #coglioneno. Ma c’è ancora molto da fare.

Il fenomeno, poi, non riguarda solo i giovani. “A differenza che in altri paesi, in Italia la fase progettuale è raramente remunerata. Eppure è lì che si concentra il valore aggiunto in termini di innovazione”: le idee si pagano, scrive Guido Guerzoni sul Sole 24 Ore. Dovrebbe essere ovvio ma non lo è per niente e a nessuno, a partire dalle pubbliche amministrazioni. Paradossalmente, trent’anni fa lo era di più”.

Tutto questo finisce per produrre un danno enorme al sistema: il comparto delle imprese creative, infatti, rimane fermo. Le menti migliori, di conseguenza, sono spinte ad andare all’estero, a creare valore e a stimolare l’economia di altri paesi. E gli insegnanti? Quelli rischiano di rimanere nel limbo.

“Ma il danno maggiore è ancora invisibile – conclude Annamaria Testa. Nella misura in cui adesso ci rifiutiamo di riconoscere e retribuire adeguatamente come “lavoro” il lavoro intellettuale, stiamo negando l’essenza stessa di tutti i lavori che verranno. E stiamo squalificando e cancellando i lavori del futuro che già oggi esistono: quelli che riguardano la cura e la crescita delle persone, la sperimentazione, la ricerca, la creatività, la progettazione e l’innovazione”.

Se pensiamo che il futuro appartenga a chi sa svolgere lavori non di routine, allora potremmo sentirci rassicurati, perché è nel DNA italiano la capacità di essere flessibili, empatici, ingegnosi. Abbiamo talento per inventare e doti riconosciute in tutto il mondo.

Raffaele Nappi

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