Università, solo 3 su 10 si immatricolano: "E' crollo di iscritti"

Business students attend a lecture at the Aula Magna auditorium at the Stockholm University on October 30, 2012. Stockholm University has over 36,000 students at four faculties, making it one of the largest universities in Scandinavia. AFP PHOTO / JONATHAN NACKSTRAND (Photo credit should read JONATHAN NACKSTRAND/AFP/Getty Images)

Per studiare e lavorare si fugge al Nord e all’estero; solo il 66 % dei laureati trova lavoro dove ha studiato; l’Italia è in forte ritardo in tema di politiche sul Diritto allo Studio. Sono solo alcuni degli aspetti presentati questa mattina all’Università Bicocca di Milano, durante il convegno sul XVII Rapporto AlmaLaurea sul Profilo e la Condizione occupazionale dei laureati.
PAESE INGESSATO – “In un mercato del lavoro condizionato dalle reti di relazioni e dalla prevalenza di canali informali di reclutamento, l’indagine testimonia che nel corso della recessione la mobilità sociale non è certo migliorata: la crisi occupazionale ha colpito maggiormente chi proviene da contesti meno favoriti, ingessando ancor di più la struttura sociale del Paese – commenta il professor Francesco Ferrante, che ha curato il rapporto. “Tra il 2006 e il 2014, il tasso di occupazione dei giovani provenienti da famiglie meno favorite si è ridotto di 10 punti percentuali, a fronte di una riduzione di 3 punti per i giovani provenienti dalle famiglie più favorite. Una dinamica registrata anche dalle retribuzioni reali diminuite, tra il 2006 e il 2014, del 13% per i primi e del 20% per i secondi. La conseguente diminuita appetibilità degli studi universitari, soprattutto per i giovani provenienti da questi contesti, rischia di affievolire ulteriormente il ruolo dell’istruzione avanzata come ascensore sociale. L’adozione di misure a sostegno di pari opportunità educative e occupazionali, in termini sia sociali sia di genere, oltre ad ispirarsi a principi di equità, è destinata a promuovere l’efficienza e la competitività del Paese e ad alimentarne le prospettive di crescita sostenibile”. Il Paese sconta tuttora un forte ritardo nei livelli di scolarizzazione. Un ritardo storico che ha alimentato fenomeni di polarizzazione, territoriale e sociale, che mettono a dura prova il potenziale di crescita del nostro Paese ed il patto sociale che sta alla base della Costituzione.
CALO DELLE IMMATRICOLAZIONI – “Il XVII Profilo AlmaLaurea testimonia ancora una volta come, dopo l’aumento delle immatricolazioni dal 2000 al 2003 (+19%), dovuto in gran parte all’ingresso robusto nell’università riformata di popolazione in età adulta, negli ultimi anni si è registrato un vistoso calo delle iscrizioni all’università . Dal 2003 (anno del massimo storico di 338 mila) al 2013 (con 270 mila) il calo è stato del 20% ed è l’effetto combinato del calo demografico (il nostro Paese, nel periodo 1984-2013, ha visto contrarsi del 40% – quasi 390 mila unità – la popolazione diciannovenne), della diminuzione degli immatricolati in età più adulta, del deterioramento delle prospettive occupazionali dei laureati, della crescente difficoltà di tante famiglie a sostenere i costi dell’istruzione universitaria, della crescente incidenza di figli di immigrati e di una politica del Diritto allo Studio ancora carente.
SOLO 3 SU 10 SI ISCRIVONO – Tanto che, oggigiorno, solo 3 diciannovenni su 10 si immatricolano all’università. Non stupisce pertanto che nel 2013 l’Italia si trovi ancora agli ultimi posti per quota di laureati, sia per la fascia d’età 55-64 anni sia per quella 25-34 anni. Su 100 giovani di età 25-34 anni, i laureati costituiscono solo il 22%; la media europea a 21 Paesi è pari al 37%, la media OCSE è pari al 39%. Questo ritardo storico nei tassi di scolarizzazione avanzata permane nonostante i miglioramenti registrati dalle nuove generazioni e colloca l’Italia, in termini comparativi, al di sotto della gran parte degli altri Paesi OCSE. Ma riguarda anche i livelli di scolarizzazione inferiore: nel 2013, la quota di popolazione adulta italiana con al più la scuola dell’obbligo era pari al 64%, nettamente al di sopra della media europea (39%) e alla quota tedesca (18%), Paese con il quale si è soliti fare i confronti in considerazione della similarità delle rispettive strutture produttive.
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RISORSE? TRA GLI ULTIMI IN EUROPA – In situazioni e in contesti caratterizzati da forti ritardi nei livelli di scolarizzazione della popolazione adulta, quindi delle famiglie, sarebbero necessarie risorse aggiuntive per compensare questo deficit. Invece tutti gli indicatori OCSE mostrano che le risorse reali destinate all’università nel nostro Paese sono di gran lunga inferiori rispetto a quelle investite in Spagna, Francia, Germania e Svezia. Facendo pari a 100 la spesa per ogni laureato italiano, la Francia e la Spagna spendono 171; la Germania 201; la Svezia 230. Un laureato italiano costa, in termini di risorse pubbliche e private assorbite e a parità di potere di acquisto, la metà di un laureato tedesco e circa il 30% in meno della media dei paesi OCSE…è come se si chiedesse alla Fiat di produrre auto del segmento premium a metà del costo sostenuto dalla BMW!
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DOVE VANNO A FINIRE I SOLDI? – La questione dell’entità delle risorse non va disgiunta da quella dei criteri per allocarle. Qualsiasi azione finalizzata a valutare e premiare, di conseguenza, la performance degli atenei, deve tenere conto che il ritardo nei livelli di scolarizzazione delle famiglie e di apprendimento dei giovani si manifesta in maniera differenziata sui territori. Se l’allocazione delle risorse non riconosce questi elementi, non solo non sarà meritocratica, ma è destinata ad alimentare, come emerge dalle indagini AlmaLaurea, processi di polarizzazione crescente che penalizzano soprattutto gli studenti più capaci ma meno mobili, e residenti nei contesti meno favoriti. Studenti che vedrebbero peggiorare progressivamente la qualità dei servizi didattici e del contesto educativo. A parità di risorse finanziarie investite e di organizzazione del lavoro, la qualità delle istituzioni scolastiche e universitarie dipende dai comportamenti delle persone che vi operano. Diversi fattori in questi anni hanno contribuito a dilapidare il capitale di motivazioni intrinseche del personale a vario titolo impiegato. Quindi, oltre a valorizzare i meccanismi che si basano sugli incentivi premiali estrinseci, meccanismi più costosi e di difficile implementazione, occorre agire al fine di ricostituire quel capitale di motivazioni intrinseche che, soprattutto nell’ambito delle attività educative, gioca un ruolo centrale. A questo scopo, oltre a selezionare personale adeguatamente motivato, occorre creare le condizioni che possono rimotivare il personale in servizio. La conclusione non è certamente un invito alla rinuncia alla valutazione e all’utilizzo di sistemi premiali ma ad agire con cautela sulla base di indicatori di performance correttamente normalizzati, ovvero che tengano conto di tutte le variabili in gioco. Un invito pressante anche perché il nostro è un sistema universitario fortemente sottofinanziato.
DIFFICOLTA’ DI INSERIMENTO NEL MONDO DEL LAVORO – Gli effetti a cascata prodotti dai ritardi nel tasso di scolarizzazione condizionano anche la dialettica tra università e mondo del lavoro. Nel valutare la performance occupazionale dei laureati, andando oltre il dato congiunturale, le indagini AlmaLaurea rilevano le difficoltà riscontrate dai neolaureati nella fase di inserimento nel mercato del lavoro, a cui si accompagnano tuttora un ridotto assorbimento di lavoratori ad alta qualificazione da parte del sistema produttivo e fenomeni di brain drain crescenti all’aumentare del livello di istruzione. Questo fatto trova puntuale rappresentazione nella quota di popolazione e di forza lavoro laureata, dato che ci pone tuttora in fondo alle classifiche OCSE anche per le classi d’età più giovani. L’occupazione nelle professioni ad alta qualificazione è tipicamente e positivamente correlata all’attività di investimento, di innovazione e di internazionalizzazione delle imprese: proprio per questi motivi, il consolidamento della crescita su sentieri sostenibili necessita di un salto di qualità nell’attività di investimento da parte delle imprese rispetto a quanto si è visto nel corso degli ultimi dieci anni. Nel nostro Paese, dopo una fase di riduzione, in controtendenza rispetto al complesso dei Paesi dell’Unione Europea, la quota di occupati nelle professioni ad alta specializzazione sembra avere invertito la sua tendenza, passando dal 16,9% del 2013 al 17,4% del 2014. Permane ancora, però, il distacco dalla media europea, pari a circa sette punti percentuali. Il fatto più preoccupante che aiuta a spiegare questo risultato è che la debole scolarizzazione della forza lavoro si riflette significativamente sui livelli di istruzione della classe manageriale e dirigente italiana. I dati Eurostat segnalano, ad esempio, che sebbene il quadro sia in tendenziale miglioramento, nel 2013 ben il 28% dei manager italiani aveva completato tutt’al più la scuola dell’obbligo: in Germania tale quota ammonta al 5%. La media EU27 è pari al 10%.
 
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IL XVII RAPPORTO 2015 SUL PROFILO DEI LAUREATI ITALIANI
Il XVII Rapporto AlmaLaurea sul Profilo dei laureati restituisce una minuziosa fotografia delle principali caratteristiche dei laureati del 2014, dalla riuscita universitaria alle condizioni di studio, dalla soddisfazione per il percorso appena concluso alle esperienze di stage, lavoro e studio all’estero compiute durante gli studi. In sintesi occorre mettere in evidenza i seguenti elementi di rilievo:
-La quota di laureati di cittadinanza estera è complessivamente pari al 3,3%: 3,1% tra i triennali, 3% tra i magistrali a ciclo unico e 4% tra i magistrali biennali.
-E’ in possesso di un diploma di tipo liceale (classico, scientifico e linguistico) il 64% dei laureati 2014. In particolare, lo è il 61% dei laureati di primo livello, l’82% dei magistrali a ciclo unico e il 64% dei magistrali biennali.
-La riuscita negli studi è rilevata attraverso l’età alla laurea, il ritardo all’iscrizione, la durata e la regolarità negli studi, ma anche la votazione di laurea. L’età media alla laurea, oggi pari a 26,4 anni per il complesso dei laureati, varia tra 25,3 anni per i laureati di primo livello e 26,9 anni per i magistrali a ciclo unico e 27,7 per i magistrali biennali. Su tale risultato incide sicuramente il ritardo nell’iscrizione al percorso universitario, oggi più marcato rispetto a quanto non avvenisse prima dell’avvento della Riforma universitaria. S’iscrivono con almeno due anni di ritardo rispetto all’età canonica (fissata a 19 anni per i laureati di primo livello e a ciclo unico; 22 anni per quelli magistrali) 16 laureati di primo livello su cento; sono 8 su cento tra i colleghi a ciclo unico e 42 su cento tra i magistrali biennali. La durata media degli studi è pari a 4,6 anni: più nel dettaglio, è di 4,6 anni per i laureati di primo livello, 7,1 anni per i magistrali a ciclo unico e 2,8 per i magistrali biennali. Su cento laureati, 45 terminano l’università in corso: in particolare, sono 44 laureati triennali, 34 laureati a ciclo unico e 54 magistrali.
-Il voto medio di laurea è pari a 102,2; in particolare, è 99,4 per i laureati di primo livello, 103,8 per i magistrali a ciclo unico e 107,5 per i magistrali biennali.
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Gli esiti occupazionali a un anno dal titolo
L’Indagine mostra una sostanziale tenuta del tasso di occupazione ad un anno dal titolo. Nello specifico il Rapporto permette di indagare la condizione occupazionale di: 1) Laureati triennali: considerato l’alto tasso di prosecuzione degli studi (il 54% continua con la laurea magistrale) e tenendo conto, più opportunamente, solo di quanti non risultano iscritti ad un altro corso di laurea, emerge che il tasso di occupazione è pari a circa il 65%. 2) Laureati magistrali biennali: il tasso di occupazione sfiora il 70%. 3) Laureati magistrali a ciclo unico (ovvero i laureati in architettura, farmacia, giurisprudenza, medicina, veterinaria): il tasso di occupazione è pari a circa il 50%. Si tratta di una realtà molto particolare, caratterizzata da un’elevata prosecuzione degli studi con formazione non retribuita propedeutica all’avvio delle carriere libero professionali (ad esempio, praticantati, specializzazioni, tirocini). Rispetto alla precedente rilevazione si registra una lieve contrazione del tasso di disoccupazione, sia per i laureati triennali che per i laureati magistrali. I laureati di primo livello presentano una quota di disoccupati attorno al 26%, i colleghi magistrali superiore al 22%. Discorso a parte per i laureati magistrali a ciclo unico, dove il tasso di disoccupazione sfiora il 30%. Per questi ultimi, confronti tout court con le precedenti coorti di laureati risultano azzardati, sia per la mutata composizione del collettivo sia per alcuni fattori contingenti (concorso di accesso alla scuola di specializzazione) legati al percorso di medicina e chirurgia.
 
Stabilità del lavoro e guadagno a dodici mesi dal titolo
La quota di lavoro stabile (lavoro autonomo effettivo o dipendente a tempo indeterminato) risulta leggermente in calo per i laureati triennali e magistrali (rispettivamente di 2 e 1 punto percentuale rispetto alla precedente rilevazione). Discorso a parte anche in questo caso riguarda i laureati a ciclo unico: la quota di occupati stabili aumenta infatti di oltre 2 punti percentuali rispetto alla precedente indagine. Il lavoro stabile è quindi pari, a un anno, al 39% tra i triennali, prossimo al 34% tra i magistrali e del 38% tra i laureati a ciclo unico. Le indagini AlmaLaurea realizzate negli anni precedenti confermano che la stabilità lavorativa nel corso della recessione ha subito una significativa contrazione, legata in particolare al vero e proprio crollo dei contratti a tempo indeterminato. Le retribuzioni a un anno risultano sostanzialmente stabili per i laureati di primo livello e in lieve aumento per i laureati magistrali e magistrali a ciclo unico: per tutti si aggirano attorno ai 1.000 euro netti mensili. Rispetto alla precedente rilevazione, le retribuzioni reali risultano in aumento: l’incremento è del 5% tra i colleghi a ciclo unico, del 2% tra i magistrali e non raggiunge l’1% tra i triennali. E’ però vero che, tra il 2008 e il 2014, le retribuzioni reali sono diminuite del 22% per i laureati triennali, del 18 e 17%, rispettivamente, per i laureati magistrali biennali e a ciclo unico.
FUGA DAL MEZZOGIORNO – Tra i laureati di primo livello e tra i magistrali a ciclo unico, quasi 80 laureati su cento sono “stanziali”, ovvero si spostano al massimo in un ateneo nella provincia limitrofa a quella di residenza; in particolare il 53% decide di studiare nella stessa provincia di residenza, il 26% in una provincia attigua. Ne deriva che quasi il 20% dei laureati è mobile: nel dettaglio, il 10% si sposta all’interno della propria ripartizione geografica; il 9% in una diversa ripartizione geografica, e un altro 1% proviene dall’estero. A parità di condizioni in ingresso e di gruppo disciplinare, i laureati più mobili sono quelli che provengono da contesti famigliari culturalmente ed economicamente più avvantaggiati e, tra l’altro, sono spinti sia dalla scelta di un percorso di studi universitario più affine alle proprie esigenze culturali sia dalle prospettive professionali.
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L’analisi, che non mostra particolari differenze rispetto al tipo di corso scelto (laurea triennale o a ciclo unico), in corrispondenza del percorso di studi intrapreso evidenzia invece che i laureati dei gruppi psicologia (32%), chimico-farmaceutico, educazione fisica, linguistico e agraria e veterinaria (24%) si spostano nettamente di più dei loro colleghi laureati nei percorsi economico-statistico (13%), insegnamento, scientifico e giuridico (16%). La mobilità in ingresso all’Università cambia tuttavia in base all’area di residenza: 1) le indagini mostrano che la mobilità è molto bassa al Nord dove, su cento laureati, ben 98 non cambia ripartizione territoriale; 2) cresce al Centro, dove la quota di chi studia nella stessa ripartizione passa al 92% (mentre il 5% decide invece di frequentare un’università del Nord e il 3% una del Sud-Isole); 3) sale ulteriormente per i laureati residenti al Sud, tra i quali, se è vero che un buon 81% decide di restare nella medesima area, il 19% decide di fare la valigia e allontanarsi dalla famiglia d’origine (l’11% al Centro e l’8% al Nord).

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