Aumento stipendio statali è "a tempo". Docenti più giovani a rischio decurtazione

Una sostanziosa parte dell’aumento previsto dall’ultimo rinnovo del contratto degli statali rischia di svanire in una bolla di sapone. E quelli che ci rimetteranno di più sono ancora una volta i più giovani. Si perché se non verranno trovate nuove risorse per stabilizzare i contratti, allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 2018 quest’ultimi sfumeranno in un poof. 
ELEMENTO PEREQUATIVO
La parola magica per trovare un accordo senza che tutti i fondi ci siano – d’altronde siamo in un’epoca in cui trovare le coperture per una legge è relativo – è ‘elemento perequativo’.  In base a quella che assomiglia più ad una formula alchemica che ad una contratturale, i vari comparti, dai lavoratori dei ministeri a quelli della sanità, hanno siglato intese subito prima delle elezioni. Ora però si scopre la falla, portata alla luce da Il Sole 24 Ore, si era stabilito di dare a tutti un aumento pari al 3,48%. Ma quella quota, si è scoperto poi, sarebbe stata di garanzia degli 85 euro lordi mensili per i soli dipendenti ministeriali, che hanno buste paga mediamente più pesanti. Di lì la decisione di ricorrere a incrementi temporanei. “Aumento a elastico”, lo definisce il Sole 24 Ore. Secondo cui, ulteriore beffa, ad essere più colpiti saranno gli statali che guadagnano meno, quindi i più giovani. 
Dura l’Unione sindacale di base (Usb) che parla di “trappola“, ricordando che non viene considerato “agli effetti dell’indennità di buonuscita o di anzianità, del trattamento di fine rapporto, dell’indennità sostitutiva del preavviso, né dell’indennità in caso di decesso. Insomma un “fuori busta” che rappresenta “oltre a un’inaccettabile presa in giro, la più clamorosa negazione della certezza del salario e del valore dello stesso Ccnl”. Il segretario nazionale Cgil Fp Salvatore Chiaramonte, invece, difende la scelta di avvalersi di questo strumento. “In tutte le fasi di trattativa – spiega  è stata comunicata la scelta di introdurre questo elemento che, tra l’altro, abbiamo l’obiettivo di rendere stabile con il rinnovo dei nuovi contratti”. 
L’AUMENTO
L’accordo prevedeva aumenti retributivi sullo stipendio base dai 63 ai 117 euro mensili lordi a regime per gli statali. Sono dipendenti di ministeri, come i docenti, agenzie fiscali ed enti pubblici non economici. A questi incrementi andava aggiunta una componente provvisoria per i livelli più bassi, che oscilla tra i 21,10 e 25,80 euro. L’‘elemento perequativo’ è però valido solo per dieci mensilità, ossia da marzo (con i primi aumenti tabellari) a dicembre 2018. Un extra ‘a tempo determinato’ che interessa più di due milioni di dipendenti pubblici. Il tempo di lanciare uno slogan prima delle elezioni? I più critici la pensano in questo modo. Non solo. A perdere più soldi sarà proprio chi guadagna di meno, l’esatto opposto dell’obiettivo dichiarato solo pochi mesi fa. Chiaramonte sottolinea l’intenzione di correre ai ripari. “Fra tre mesi ci sediamo al tavolo per il rinnovo dei contratti e nelle nostre piattaforme c’è anche la stabilizzazione di quella quota perequativa”. A patto ovviamente di trovare le risorse.
Ma cosa cambia, in effetti, per le buste paga? Facciamo alcuni esempi, seguendo le tabelle elaborate dal Sole 24 ore. I dipendenti delle Regioni, quelli del settore della Sanità, ma anche gli insegnanti con meno anzianità perderanno circa 20 euro al mese, intorno al il 25% dell’aumento. Per un impiegato della sanità l’aumento medio è di 85,4 euro, ma quello stabile si ferma a 66,9. E se uno stipendio da 2.283,2 euro, con il nuovo accordo, sale stabilmente di 90,8 euro più 4 euro “temporanei”, uno di 1.269,3 euro passa a 1.349,8 ma con un incremento stabile di soli 50,5 euro. Mentre 30 sono temporanei. Stesso discorso, ad esempio, per i dipendenti di Regioni ed enti locali. Con i nuovi contratti uno stipendio di 2.281,9 euro avrà rispetto al passato un aumento stabile di 90,3 euro e uno temporaneo di 2 euro, ma è sui dipendenti con redditi più bassi che il ‘gioco di prestigio’ avrà gli effetti più importanti. Oggi chi guadagna 1.341,4 euro (con un aumento stabile di 52 euro), porterà a casa dal 1 gennaio 2019 1.312,4 euro, per la perdita di un elemento perequativo pari a 29 euro.
IL PROBLEMA DEGLI 80 EURO
Come si è arrivati a questo? Il problema è sorto quando l’attuazione dell’accordo sugli aumenti medi da 85 euro al mese – siglato tra il governo Renzi e i sindacati pochi giorni prima del referendum costituzionale – si è scontrato con la realtà dei rinnovi contrattuali. L’intenzione iniziale era quella di dare più soldi a chi guadagnava di meno, ma è stata scelta la strada di una percentuale di aumento uguale per tutti da applicare ai vari settori. Peccato che questa percentuale sia stata plasmata sui dipendenti ministeriali, che hanno stipendi più alti rispetto a quelli degli altri settori della pubblica amministrazione. I quali, quindi, non arrivavano agli 85 euro medi promessi dall’accordo. “Avevamo da un lato l’esigenza – continua Chiaramonte – di garantire gli 85 euro a tutti, dall’altro quella di mettere a riparo tutti i percettori del bonus da 80 euro che con i nuovi contratti rischiavano di perderlo”. E si perché facendo i calcoli ci si è accorti che l’aumento dei contratti sarebbe costato a oltre 300mila dipendenti la perdita parziale o totale del bonus, dato che gli stipendi rientravano nella fascia fra i 24mila e i 26mila euro. La correzione in legge di Bilancio ha solo parzialmente risolto in problema, stabilendo che il bonus fosse azzerato dai 26.600 euro in su e diminuito gradualmente dai 24.600 euro in poi. “Rimanevano senza copertura – aggiunge Chiaramonte – la maggioranza degli stipendi più bassi, per i quali si è pensato a una quota di solidarietà del reddito. Non è una sorpresa per nessuno che si tratta di una quota non stabile, ma la nostra intenzione è quella di trasformare uno strumento straordinario in una componente ordinaria dello stipendio”.

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