Enrico Giovannini: “Non è affatto detto, che lo spirito cooperativo prevalga su quello competitivo”.

Corriereuniv.it in occasione del lancio delle guide digitali di orientamento, studiate per gli studenti in tempo di Covid ha intervistato Enrico Giovanni, economista, statistico e accademico italiano.

Enrico Giovannini è Professore ordinario di statistica economica all’Università di Roma “Tor Vergata”, dove insegna Statistica e Analisi e Politiche per lo Sviluppo Sostenibile. É co-fondatore e portavoce dell’Alleanza Italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), una rete di oltre 270 soggetti della società civile italiana.

Professore, lei si è laureato in economia nel 1981 e l’anno dopo è entrato all’Istat da ricercatore. È quello che sognava?

In realtà inizialmente non sapevo bene cosa sarebbe stata la mia attività in Istat perché collaboravo già con un professore all’università, pensavo alla carriera universitaria, però il concorso che vinsi all’Istat mi avrebbe comunque permesso di continuare l’attività universitaria, all’epoca si lavorava fino alle 2, incluso il sabato. La mattina andavo all’Istat e il pomeriggio all’università, dopo di che per fortuna le due tematiche sono molto intersecate e quindi ho fatto lavoro di ricerca all’Istat e all’università. Certamente ho avuto la possibilità, sia per il fatto che il professore con cui lavoravo era abbastanza all’avanguardia nelle metodologie econometriche, sia per le attività innovative che svolgevamo in Istat, di coniugare attività lavorativa e di ricerca. Sono stato da un lato molto fortunato e dall’altro molto contento.

Cosa l’ha affascinato della statistica?

In realtà, più che la statistica in senso stretto, a me affascinò l’econometria, che combina statistica, matematica ed economia. Fu l’esame di econometria ad aprirmi un mondo straordinario di interesse, per poter costruire modelli che spieghino i comportamenti degli operatori economici, fare previsioni, fare simulazioni di politica economica, ecco, quello è stato per me il punto di svolta. Riuscire a combinare la produzione dati sempre più interessanti, nel senso di spiegare le dinamiche non solo economiche, ma anche sociali con la modellistica, mi ha impegnato fino a tutti gli anni 80, in parte gli anni 90. Poi sono passato a ruoli più manageriali e di direzione di ricerca in cui naturalmente quegli elementi sono stati molto importanti, prima all’Ocse e poi tornato in Istat, mi sono più dedicato a innovazioni legate ai temi statistici in senso stretto.

Perché i numeri sono importanti?

La parola statistica viene da scienza dello stato, che può essere interpretato con la s minuscola, cioè lo stato delle cose, ma anche la s maiuscola cioè lo Stato come Governo. La statistica moderna nasce con l’impero napoleonico, la necessità di gestire un impero estremamente complesso, conoscendo cosa accadeva in termini di popolazione, di reddito e altri aspetti. La statistica consente di capire la realtà, di interpretarla, e rappresenta una sorta di base comune conoscitiva che in teoria tutta la società dovrebbe usare.  Proprio per questo, invece di usare la parola statistica, ho coniato la parola: “societistica”, cioè scienza della società. Oggi i dati sono alla base delle scelte delle imprese, ma anche degli individui. Pensiamo alle famiglie che decidono di investire su una scuola, piuttosto che un’altra, un’università, piuttosto che un’altra, in funzione degli indicatori statistici di successo delle persone che hanno frequentato quella scuola. La stessa cosa vale per gli ospedali, per gli investimenti finanziari, ormai i dati sono con noi, occorre non solo conoscerli, ma anche conoscere i rischi che un’errata interpretazione dei dati può comportare: le cosiddette fake news.

Cosa dovrebbe tenere in considerazione un ragazzo/a che si appresta a scegliere un ambito di studi matematico, statistico?

La cosiddetta data revolution, cioè la rivoluzione dei dati che sta cambiando il modo di produrre, il modo di funzionare delle nostre società e naturalmente anche il modo di prendere decisioni di carattere pubblico. Nel 2014 per il segretario generale delle nazioni unite abbiamo svolto un lavoro sul tema della rivoluzione dei dati, oggi la produzione dei big data che vengono rilevati attraverso le transazioni finanziarie, i sensori, i satelliti, attraverso il nostro navigare sui social media, tutti questi sono dati molti interessanti che ci aiutano a disegnare il profilo dei consumatori, degli utenti, dei cittadini, delle imprese. Avere questo tipo di competenza come scrisse il direttore di “Wired”: “saper nuotare nel mare tempestoso dei dati è oggi uno degli elementi di maggior successo, anche sul mercato del lavoro”. Proprio perché sfruttare queste informazioni è un modo di saper leggere la realtà, avere un vantaggio competitivo rispetto ad altri.

La laurea è sufficiente a garantire uno sbocco occupazionale?

La laurea in statistica ha un tasso di successo molto alto.

Ormai ci sono tanti corsi di laurea che tendono a formare non più solo gli statistici, ma i cosiddetti scienziati dei dati in cui si combinano capacità di disegnare gli algoritmi, di analizzare enormi masse di dati, di disegnare il calcolo, il computing, cioè, algoritmi in grado di sfruttare la potenza dei nuovi computer, quindi c’è un’evoluzione in corso, io però suggerisco sempre di avere anche conoscenze contenutistiche su alcune materie non solo tecniche.

Per esempio?

Penso all’economia, alla sociologia, cioè la capacità di inquadrare gli aspetti tecnici in un quadro interpretativo, perché se uno non sa quali domande porsi è difficile trovare le giuste risposte. E’ vero che ormai c’è una fortissima specializzazione proprio nelle tecniche, ma io credo che per essere capaci di leggere la realtà bisogna avere anche delle conoscenze su come la realtà potrebbe essere, perché non è vero come dice qualcuno, che i dati parlano da soli, i dati parlano da soli se tu riesci a connetterli con schemi interpretativi basati sulla teoria dei sistemi che connettono diversi aspetti, raramente i dati parlano da soli. 

Prof. Lei oltre ad essere uno studioso è un grande agitatore culturale sui temi dello sviluppo sostenibile. Faccio riferimento in particolare all’Asvis: cosa vuole costruire?

Costruire un mondo più sostenibile dal punto di vista non solo ambientale, ma anche economico, sociale, e dunque anche istituzionale, secondo quello che propone l’agenda 2030 firmata da tutti i paesi dell’Onu nel 2015. È un grande piano di trasformazione del nostro mondo che oggi purtroppo non è su un sentiero di sviluppo sostenibile. Anche prima della pandemia c’erano disuguaglianze molte forti, una condizione dell’ambiente che ahimé, era in costante degrado, posizioni economiche insoddisfacenti. Tutti questi aspetti vanno tenuti presente attraverso una lettura integrata delle realtà sociali, economiche ed ambientali.

L’Asvis che unisce oltre 270 soggetti della società civile italiana, lavora per spingere l’Italia, l’Europa, se vuole il mondo, a raggiungere gli obiettivi fissati per il 2030 e accelerare il suo corso verso la sostenibilità. Questa crisi pone tantissime domande in parte nuove, in parte vecchie, la battaglia dunque è far si che le politiche orientate alla ripartenza economiche siano fatte attraverso un approccio integrato, risolvendo i problemi occupazionali evitando che l’aumento della produzione generi ulteriori danni ambientali.

Come ha visto il nostro Paese alla prova del Covid?

Questa crisi pone tantissime domande in parte nuove, in parte vecchie, la battaglia dunque è far si che le politiche orientate alla ripartenza economiche siano fatte attraverso un approccio integrato, risolvendo i problemi occupazionali evitando che l’aumento della produzione generi ulteriori danni ambientali. La nostra società si è scoperta molto più fragile di quello che amava pensare di essere, e questo ha conseguenze molto rilevanti sulla reazione delle persone, delle imprese e della società nel suo complesso. Non è affatto detto che lo spirito cooperativo prevalga su quello competitivo di fronte alle difficoltà che stiamo affrontando. 

Mariano Berriola

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