La maternità è il momento più critico nella carriera delle donne e l’accademia non fa eccezione. Abbattere il “muro della maternità” è un obiettivo prioritario nella lotta per le pari opportunità. Le università potrebbero dare il buon esempio con quattro azioni. Sul fattoquotidiano.it due ricercatori, Giovanni Abbiati e Alessandra Minello, cercano di rispondere ad una problematica reale che non riesce a trovare una soluzione concetra negli ultimi anni. O almeno univoca. Si, perché nel mondo si stanno cercando delle soluzioni ma con differenti azioni. Una di quelle che ha fatto molto discutere, in un mondo dove la competizione intellettuale è (o dovrebbe essere) estremamente elevata, riguarda la decisione dell’decisione della Eindhoven University of Technology di istituire “quote” indirizzate esclusivamente a candidate donne nel reclutamento di personale di ricerca a tempo indeterminato.
In Italia, benché i dati mostrino una presenza femminile inferiore a quella maschile nell’accademia, soprattutto nelle posizioni apicali, non è mai stato adottato in maniera strutturata alcun sistema per quote nelle decisioni di reclutamento. Attualmente, la percentuale di donne nel mondo universitario risulta essere maggioritaria tra studenti e dottorandi per poi diminuire progressivamente man mano che si sale la scala gerarchica. Tra gli ordinari, le donne sono solo il 23 per cento.
Secondo i due ricercatori La prima è relativa alla disponibilità di servizi, elemento cruciale per sostenere la maternità e il rientro delle donne al lavoro, come per esempio l’istituzione di nidi universitari (già attivi in alcune realtà come Trento e Bologna) o, in subordine, lo stanziamento di contributi alle spese per asilo nido o babysitter (Università degli studi di Milano).
Queste iniziative hanno però spesso il limite di rivolgersi unicamente al personale dipendente degli atenei, escludendo quindi le giovani precarie a inizio carriera accademica. La nostra proposta prevede non solo di estenderle, ma anche di includere tra i beneficiari il personale non dipendente. La distinzione tra dipendenti e non dipendenti è infatti già superata nella maggior parte dei nidi aziendali.
La seconda azione ha a che fare con il coinvolgimento dei padri tramite iniziative, sia economiche che di sensibilizzazione, volte a incentivarne o premiarne la co-tutela dei figli (come le premialità proporzionate ai giorni di congedo sperimentate in provincia di Trento). In questo modo, non solo diminuirebbe il divario delle madri in accademia rispetto ai padri, ma si rafforzerebbe una cultura della cura più paritaria.
La terza, specifica per il settore accademico, rientra tra le azioni proposte all’estero per ridurre l’impatto del congedo parentale sulla carriera: la sospensione dell’attività didattica in rientro dal congedo potrebbe essere un incentivo per entrambi i genitori.
La quarta agisce sui processi selettivi. Già oggi il tempo dedicato alla maternità viene considerato nel comparare la produttività accademica in fase di abilitazione scientifica nazionale. Applicare le stesse linee guida nei concorsi universitari permetterebbe, a differenza del sistema per quote, di mantenere intatto il focus sul merito dei concorsi evitando al contempo di penalizzare le madri.
Certamente, disparità e discriminazione in accademia, così come negli altri ambiti, non sono unicamente associate alla maternità. Riteniamo tuttavia che l’abbattimento del maternal wall sia un obiettivo prioritario nell’ambito della lotta per le pari opportunità, sia per evitare di costringere le donne a dover scegliere tra obiettivi privati e vita professionale, sia per aumentare la possibilità, per quelle già in accademia, di competere con gli uomini per le posizioni apicali.
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