Negli anni Sessanta i rifiuti nucleari si cementavano e si mettevano sotto terra, in quelle che all’epoca venivano chiamate “fosse irreversibili”, proprio perché sarebbero rimaste lì per sempre. Una tecnica tutta italiana sviluppata da Sogin ha dimostrato, per la prima volta al mondo, che questo è tutto tranne che irreversibile. E che, anzi, i rifiuti nucleari possono essere smaltiti e conservati in modo più sicuro.
A Rotondella (Matera) è stata completata oggi la rimozione del “monolite”, un prisma verticale di rifiuti nucleari di circa 130 tonnellate e 54 tonnellate che si trovava a 6,5 metri di profondità. Negli anni in cui l’Italia sperimentò l’energia nucleare proprio in Basilicata, nel Centro di ricerche Enea Trisaia, venne aperto l’Itrec, l’impianto di trattamento e rifabbricazione degli elementi di combustibile. Quello era il luogo della sperimentazione del nucleare italiano, dove si provò anche a sviluppare energia da barre di uranio-torio che vennero acquistate dagli Stati Uniti. Un percorso che provò a sostituire il combustibile uranio-plutonio che all’epoca veniva normalmente impiegato.
Sogin è la società pubblica che si occupa di decommissioning, cioè dello smantellamento degli impianti nucleari italiani. I suoi tecnici hanno impiegato 12 anni per arrivare a questo risultato: più di un decennio per sollevare ed estrarre i 4 pozzi che componevano il monolite della Fossa 7.1. Lì dentro erano stati stipati gli elementi di chiusura in acciaio delle barre nucleari che, secondo i tecnici Sogin, impiegheranno diverse centinaia di anni per terminare il decadimento radiattivo. Oggi stati trasferiti in un deposito dello stesso sito per il loro stoccaggio temporaneo, in attesa del deposito nazionale. Grazie a questa operazione è oggi possibile controllarli e monitorarli con più facilità, anche per cercare di capire quale il loro stato di conservazione nel corso del tempo.
Prima di avviare le operazioni di rimozione il monolite è stato ingabbiato anche con una struttura d’acciaio. Poi è stato effettuato il taglio orizzontale, perforando la base della struttura, e quello verticale, separando i quattro pozzi l’uno dall’altro. Per consentire la rimozione sono stati installati alcuni sistemi di sollevamento per un peso di 45 tonnellate. Una grande gru, oggi, lo ha tolto dal terreno e lo ha portato in superficie.
A fine 2018 il volume dei rifiuti radioattivi (solidi e liquidi) presenti nel sito di Rotondella è stato di 3.214 metri cubi. Questo volume può variare di anno in anno con il progredire delle attività di mantenimento in sicurezza e di decommissioning e delle modalità di condizionamento dei rifiuti pregressi.
“E’ un onore iniziare il mio mandato con questo evento”, spiega Luigi Perri, neo presidente di Sogin. “L’Italia – aggiunge – iniziò per prima a implementare un programma complessivo di decomissioning. Si tratta dunque di sfide nuove, da portare avanti senza poter copiare qualcun altro. Questa è stata la prima volta che si è sviluppata un’attività di bonifica di questo tipo”. Il referendum del 1987 dopo la catastrofe di Chernobyl e il successivo stop all’energia nucleare hanno infatti fatto dell’Italia un’eccellenza internazionale proprio per lo smantellamento degli impianti.
Il deposito unico nazionale
A margine dell’operazione è stato l’amministratore delegato di Sogin, Emanuele Fontani, a ricordare come il deposito unico nazionale per le scorie nucleari “ad oggi è previsto al 2025”. “Facendo le corse siamo ancora in tempo”, ha aggiunto, sottolineando come ci sia “una legge” del 2010 che “è molto chiara e detta delle tappe molto serrate su quello che riguarda la realizzazione del deposito nazionale. Siamo in una fase importante che è quella della validazione della Cnapi, la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee. Una volta che sarà validata le procedure successive saranno quelle di pubblicità e discussione con la popolazione”.
All’ordine del giorno c’è anche il tema di un deposito ‘geologico’ che possa smaltire le scorie ad alta attività (tra cui anche le barre nucleari contenenti uranio), quelle che impiegano migliaia di anni per il loro decadimento. In questi casi non basta il calcestruzzo ma serve anche una geologia particolare del territorio. Temporaneamente potranno stare in un deposito unico nazionale ma per il loro smaltimento definitivo sarà necessario qualcosa in più: un luogo capace di garantire la sicurezza per i millenni a venire. “Ci sono Paesi che hanno una cultura nucleare più aperta della nostra – aggiunge Fontani – L’Italia ha fatto una scelta” dopo “Cernobyl e il referendum e noi non possiamo fare altro che accettarla”. “È mia opinione personale ma credo che l’Italia avrà grosse difficoltà” ad ospitarle il deposito ‘geologico’. Ecco perché si può aprire uno scenario: L’Italia, prosegue, “potrà avere un ruolo nell’individuare un accordo con altri Paesi per poter realizzare un deposito sovranazionale con altri Paesi europei”.
In Italia ci saranno nel futuro deposito nazionale 95mila metri quadrati di scorie nucleari radioattive, tra cui 17mila metri cubi ad alta attività e 78mila a bassa attività.
ilmessaggero
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